Dall’altra parte del filo spinato: Irma Grese e Olga Lengyel (prima parte)

Il testo che pubblichiamo oggi è volutamente diviso in due parti: la seconda verrà pubblicata il prossimo 27 gennaio: non una data scelta a caso.

 

    Non troppo tempo fa, l’odio verso le minoranze sociali, etniche e religiose si diffuse nel centro Europa e si estese a macchia d’olio: i diversi erano lo sfortunato portatore di qualche malanno fisico, il vecchio comunista ed il giovane ebreo. Gente da eliminare, magari non subito. Prima, potevano essere sfruttati come forza lavoro, oppure usati come cavie da laboratorio.

Non troppo tempo fa, quindi, dalle principali città europee partivano treni strabordanti di uomini, donne e bambini: venivano ammassati li, quasi uno sopra l’altro, ammucchiati per evitare il contatto con i cadaveri in decomposizione, senza acqua, pane e luce per lunghissimi ed interminabili giorni. E quando i portelloni venivano finalmente riaperti ed i raggi del sole filtravano nell’oscurità, iniziava a vedersi l’inferno.

L’inferno si poteva chiamare per esempio Auschwitz–Birkenau, Mauthausen, ma anche Bergen-Belsen, Ravensbrück, Flossenbürg, Fossoli o Bolzano: in queste ed in molte altre città il treno, il tempo e la vita si fermavano. Qualche anno prima, qualcuno, lì, aveva costruito delle casette di legno, dislocate in blocchi, circondate da una recinzione metallica e consumate dal gelido odio nazista, più che dal freddo del nord.

All’arrivo iniziava una prima selezione dei deportati: coloro i quali non erano ritenuti idonei per lavorare, venivano automaticamente condannati a morte. Tutti gli altri venivano spogliati, rasati, rivestiti, marchiati con un numero e spediti nelle cave o nelle fabbriche dall’alba al tramonto, tutti i giorni, senza sosta, mentre uomini e donne in divisa li sorvegliavano, pronti ad intervenire, al minimo problema, con il fucile in mano.

 

    Irma Grese cammina lungo il filo spinato e controlla che i detenuti del suo blocco rispettino le regole. È una giovane guardia delle Schutzstaffeln ed è stata soprannominata “la bella bestia”, poiché, nonostante la bellezza quasi angelica ed i lunghi capelli biondi, il suo volto incute timore e riverenza.

Con il suo aspetto impeccabile, l’uniforme curata e la ferocia che colora i suoi occhi, Irma Grese si ferma a guardare le detenute, sfidandole dall’alto della sua superbia: il sangue già le ribolle nelle vene e piano piano sale anche quella sensazione di piacere sadico e sessuale.

 

    Irma Grese era stata cresciuta dal padre, cattolico, ma violento. La madre si era suicidata bevendo acido cloridrico. Segnata da questa infanzia infelice ed esposta alle dottrine del regime a seguito dell’atto del 23 marzo 1933 che aveva costretto l’insegnamento dei principi nazionalsocialisti a scuola, Irma si era formata in un clima di totale odio incentrato sulla superiorità razziale e sull’antisemitismo.

All’età di 15 anni aveva lasciato la scuola e attratta dalle ideologie hitleriane si era arruolata nella Lega delle ragazze tedesche, un’associazione che preparava bambine e ragazze a diventare donne e madri utili alla causa nazista; ma la giovane Irma forse non era interessata ai laboratori di taglio e cucito e nemmeno alla preparazione fisica e sociale necessaria per procreare figli sani e forti.

Così si era arruolata volontaria come aufseherin, ovvero guardia femminile dei campi di concentramento. L’avevano mandata prima a Ravensbrück, poi ad Auschwitz: finalmente la sua immensa devozione alla causa era stata ripagata, poiché in breve tempo era riuscita ad ottenere incarichi sempre più autorevoli, fino a dirigere il famigerato Blocco 11.

 

    Irma Grese osserva con attenzione la sua prossima vittima, con un sorriso compiaciuto. Parla brevemente con un’altra guardia e se ne torna nel suo alloggio, soddisfatta. Il sorvegliante poco dopo bussa alla porta ed entra. Stringe il braccio di una ragazza polacca ancora molto bella e, dopo un cenno di Irma Grese, se ne va lasciando le due donne.

Uscendo non vede Olga Lengyel, un’infermiera rumena che ha appena avuto l’ordine di recarsi dalla bionda nazista, insieme ad una sarta. Olga si avvicina all’abitazione, ma viene fermata da una serva: <<Non sei venuta nel momento migliore.>> Le dice. <<La bestia selvaggia è impazzita!>>. In quel momento Olga sente delle urla disperate ed immediatamente capisce cosa sta accadendo.

 

    Olga Lengyel aveva trascorso tutta la sua infanzia in Transilvania. La passione per la medicina e la dedizione al prossimo l’avevano spinta sin da piccola a studiare infermieristica. Grazie agli studi fatti all’università di Cluj-Napoca si era diplomata come assistente medico qualificato e aveva conosciuto il suo futuro sposo, il dottor Miklos Lengyel, con il quale aveva poi fondato una piccola clinica.

Nel maggio del 1944, Miklos era stato chiamato, con l’inganno, a lavorare presso un ospedale tedesco. Olga, con i figli e con i suoi genitori, l’aveva accompagnato per un lungo viaggio di sette giorni su di un treno. Non un treno qualsiasi. Giunti ad Auschwitz erano stati subito separati ed Olga era stata costretta a lavorare con il personale infermieristico del campo proprio a causa della sua professione.

Aveva iniziato a vivere in una delle casette di legno: il filo spinato che circondava queste strutture le aveva, sin dal primo istante, ricordato le gabbie per animali. Aveva dormito ogni notte ammassata ad altre donne con la teste rasate, i piedi nudi e vestite di stracci, proprio come lei. Aveva vissuto ogni giorno a pochi metri dal forno dentro al quale erano stati gettati i suoi figli ed i suoi genitori.

 

    Olga Lengyel è ancora in attesa vicino al muro dell’abitazione e da una piccola fessura riesce a vedere quanto sta avvenendo: Irma Grese frusta selvaggiamente la ragazza polacca, percuote sempre più forte e urla <>, ripete: <>, senza smettere di picchiare. Un prigioniero appare nel campo visivo di Olga. Lo riconosce. È un georgiano alto e attraente. Era stato mandato nella sezione femminile per riparare le strade e qui aveva conosciuto la ragazza polacca. Si erano innamorati. Lo sapevano tutti, anche Irma Grese.

Irma Grese si era però invaghita di quell’uomo. Lo aveva scelto come suo schiavo personale, ma, poiché il georgiano, il cui spirito non era stato spezzato né dalla cattiveria né dalla terrificante reputazione di Irma, aveva rifiutato di cedere ai suoi desideri, la sadica giovane guardia nazista aveva pianificato la propria inesorabile vendetta: costringerlo ad assistere a quella tortura.

Invero, accadeva quasi giornalmente che la crudele giovane guardia costringesse uomini o donne ad accoppiarsi con lei e a subire le peggiori umiliazioni, per poi essere inviati direttamente dentro le camere a gas. A seconda dell’umore, sguinzagliava i cani affamati appositamente addestrati su donne e bambini, oppure si divertiva a lapidare i detenuti, colpendoli in testa con grosse pietre.

Godeva nel sentire le urla e nel vedere il dolore causato: la sua estasi perversa la portava a selezionare donne sane per dichiararle malate, condannandole così a divenire cavie da laboratorio, dove veniva inflitta loro ogni tipo di atrocità dal dottor Mengele e lei stessa si preoccupava di effettuare esperimenti atroci.

Olga Lengyel sente dei rumori e frettolosamente si presenta davanti alla porta, aspettando di essere convocata con la sarta. Dopo alcuni minuti, la porta si apre. Il georgiano esce con ardenti occhi scuri colmi di inesprimibile odio. Anche la ragazza polacca esce. Irma Grese non le ha risparmiato nemmeno il viso. È irriconoscibile. <<Entrate!>>, comanda quest’ultima, abbottonandosi la camicetta.

Olga Lengyel da quel giorno non ha mai più visto il georgiano. Ha avuto solo successivamente sue notizie: Irma Grese gli aveva sparato. La giovane polacca martoriata invece era finita nel bordello di Auschwitz.

Quella sera, Olga Lengyel, rannicchiata per cercare riparo dal freddo, si chiede perché, dopo tutto questo tempo, Irma Grese non l’avesse ancora uccisa. Più che una domanda, forse, è solo una piccola speranza.

 

Continua…