Ogni giorno è un buon 8 marzo.

Dopo la retrospettiva L’ottat(t)rici, dedicata alla figura femminile rappresentata sul grande schermo nella lotta per il riconoscimento dei propri diritti, L’otto mensilmente riparte oggi con una nuova rassegna intitolata Ogni giorno è un buon 8 marzo.

Il titolo vuole essere un’esortazione affinché la Festa della Donna non sia l’unico momento dell’anno nel quale fermarsi per riflettere ed analizzare come la società passata ed attuale ha discriminato e tuttora annichilisce le donne, ma sia, questo pensiero, vera prerogativa di tutti i giorni che compongono le nostre vite: sarebbe d’altronde riduttivo semplificare il tutto ad un solo evento, per scoprirci ventiquattro ore dopo indifferenti e distanti, come se nulla fosse successo per poter cambiare il futuro che viviamo.

Questa nuova rassegna ospiterà in ogni suo numero le storie di due donne legate profondamente da un comune percorso (lavorativo, di lotta sociale, storico, religioso, ecc.) il quale le porrà tuttavia di fronte a destini completamente opposti. Questo parallelismo ha l’intento di comunicare sia quali e quanti soprusi la donna subisce e ha subito, ma anche – e in chiave di un moderno spirito positivista – in che modo la donna è riuscita e riesce a realizzarsi, rappresentando un perfetto esempio sociale al quale potersi ispirare per liberare l’attuale contesto collettivo da un gretto pensiero prettamente maschilista.

In questo primo numero presentiamo le storie di Rhian Collins Lois Jenson, due donne che hanno subito oppressioni e molestie sul posto di lavoro: il loro differente modo di reagire colpisce da un lato per l’attualità del fenomeno, ma dall’altra ci porterà a capire che tutti noi dobbiamo continuare a rimboccarci le maniche affinché gli esempi del passato siano precedenti grazie ai quali costruire attorno alla figura della donna un vero scudo sociale.

Lois Jenson, statunitense, è disperata: deve trovarsi un’occupazione remunerativa e deve farlo in fretta. È una madre single e sa che per combattere là fuori, nel mondo, non servono armi, già basterebbe la dignità di un lavoro. Qualunque esso sia.

Rhian Collins è un’infermiera di un piccolo ospedale psichiatrico nel Galles del sud: ha trent’anni, due figli piccoli, un partner e una vita semplice. Ama il suo lavoro, ma non è felice e quindi si iscrive in palestra, sperando così di risolvere i propri problemi.

E nel Minnesota degli anni Settanta, qualsiasi opportunità di lavoro per Lois Jenson è un’occasione da non farsi sfuggire: c’è da rimboccarsi le maniche nelle miniere della Eveleth Taconite Company e la luce del sole non si vede quasi mai, ma la paga è buona e il gioco vale le candele che illuminano la roccia fuligginosa.

La passione e l’impegno per la palestra a poco a poco sembrano divenire una vera e propria ossessione per Rhian Collins, tant’è che inizia a frequentarla per ben quattro volte al giorno ed associa a questi ritmi esagerati anche delle pillole per dimagrire: non riesce più ad accettare il proprio aspetto fisico.

Lois Jenson non ha fatto però bene i conti: nelle cave di quella miniera i suoi colleghi, quegli uomini sporchi e muscolosi, coltivano pian piano un sentimento di paura ed invidia, spinti sia dalla convinzione che le donne ruberanno loro il lavoro, ma anche da ben più bassi istinti.

Rhian Collins continua a non essere felice, ma nel suo meraviglioso sorriso non lascia trapelare nulla, anzi soffre nel suo silenzio interiore. Vorrebbe solo cambiare lavoro e al più presto, perché l’ospedale psichiatrico Cefn Coed inizia ad essere un inferno anche per lei.

Le indiscrete e quasi involontarie toccatine diventano, con il passare del tempo, insulti, minacce e molestie sessuali nei confronti di Lois Jenson. A tutte le lavoratrici della miniera è riservato lo stesso trattamento.

Rhian Collins si confida alla propria famiglia: alcuni medici ed infermieri dell’ospedale la stanno prendendo di mira, la bullizzano e l’abusano verbalmente. Non ce la fa più. È stremata ed esausta da questa situazione.

Nell’agosto del 1988 Lois Jenson ha denunciato l’impresa, attivando la prima class action per le molestie ricevute sul luogo di lavoro. Nel marzo del 2018 Rhian Collins si lega una corda intorno al collo e si suicida.

Trent’anni. Trent’anni separano le due vicende, ma pare che nulla sia cambiato: il gesto di ribellione di Lois Jenson non ci ha insegnato davvero niente? Passiamo un terzo della nostra giornata dormendo ed un terzo lavorando: il luogo di lavoro rappresenta quindi una seconda casa. Dovrebbe pertanto essere sicuro, familiare e protetto. Eppure, le tantissime Rhian Collins non vedono l’ora di uscire da quelle mura. Le tantissime Rhian Collins non hanno neppure la forza di parlarne. Le tantissime Rhian Collins pensano di essere loro stesse il problema.

La delusione e lo sconforto che starai provando mentre leggi questo articolo però si deve tramutare in qualcos’altro: una scintilla che deve darti speranza per il futuro.

Diffondere l’informazione deve essere il primo passo affinché davvero quel cambiamento mentale avvenga nella società. Formare uomini e donne nelle scuole e nei luoghi di lavoro deve essere poi la conseguenza naturale di questo processo, affinché si estenda a macchia d’olio la cultura della sensibilizzazione massiva del fenomeno e l’individuo venga stimolato a denunciare episodi analoghi alle autorità competenti.

La risposta è sì: sì, quel gesto ci ha cambiato dentro. Ora siamo preparati ad immolarci come uno scudo in difesa dei diritti delle donne e contro le violenze di genere in ambito lavorativo. Abbiamo capito che non esiste un sesso debole, ma solo sterili generalizzazioni che gli uomini utilizzano a proprio vantaggio, ma che vengono costantemente smontate allorquando la macchina della giustizia sociale si attiva.

E più di tutto ci ha insegnato ad essere molteplici Lois Jenson, pronti a dire, quasi ringhiando: non toccare mai più Rhian Collins, collega.

 

In copertina “At parting” di Leonid Afremov, particolare.