Colombani, senza politica del credito anticiclica il Paese non riparte

La crisi innescata dal Covid-19 già morde, ma il governo, che pure nella fase di emergenza le aveva messe al centro della sua strategia, sembra essersi dimenticato delle banche. Non proprio dimenticato, diciamo che si tratta di un’afasia momentanea. Riccardo Colombani lancia la sua provocazione chiudendo i lavori della segreteria nazionale First Cisl che si sono tenuti a Riccione. Manca del tutto, nell’agenda dell’esecutivo, un’idea di come dar seguito alle politiche messe in atto nel pieno dell’emergenza, quando introducendo le garanzie dello Stato sui nuovi prestiti alle imprese, alle banche è stato di fatto chiesto di caricarsi sulle spalle un’economia devastata dal virus.

“In larga parte si è prodotto un effetto di sostituzione – argomenta il leader di First Cisl – la massa complessiva del credito non è cresciuta, se non di poco. Certo, si tratta comunque di un inversione di tendenza, se consideriamo che in passato ad ogni recessione corrispondeva una restrizione del credito. Ma abbiamo bisogno di qualcosa di più e di diverso: un grande piano di politica creditizia per gli investimenti sorretto dalle garanzie statali. Un piano da centinaia di miliardi di euro”. Solo così è possibile il rilancio del Paese.

Il governo però non sembra interessato alle politiche del credito. Alle banche sì, ma senza una visione d’insieme. Di qui l’afasia. Le ipotesi che circolano sullo spezzatino di Mps ne sono una dimostrazione: da un lato si propone di dar vita ad una bad bank in grado di gestire una nuova, probabile ondata di Npl; dall’altro ci si spinge ad immaginare un’avventurosa fusione tra la rete di sportelli di Rocca Salimbeni e la “nuova” Popolare di Bari.

Nemmeno l’establishment economico-finanziario pare aver chiaro che siamo ad un tornante della storia. Il governatore della Banca d’Italia Ignazio Visco, davanti alla platea dell’Abi, stronca l’idea di una banca per il Sud a capitale pubblico. Alternative però non ne propone. Così la lezione di Mario Draghi rimane chiusa in un cassetto, forse perché urta con il purismo ideologico neoliberista che condanna senza appello le parole “pubblico” e “debito”. Invece Draghi “ha ragione – sostiene Colombani – le banche devono assolvere alla funzione di strumenti di politica pubblica. Il che significa concedere credito in misura illimitata con il sostegno dello Stato attraverso le garanzie pubbliche alle imprese che non licenziano e investono. Il debito aumenterà, già oggi è aumentato moltissimo. Questo diverrà un dato strutturale. Ma, come dice Draghi, c’è debito e debito: una cosa è la spesa corrente, altra cosa sono gli investimenti”. Investimenti a capitale misto pubblico-privato: questa è la strada.

Il rischio altrimenti qual è? L’avvitamento della crisi, il cortocircuito tra recessione e bilanci delle banche. Se non si ha il coraggio di perseguire una politica del credito anticiclica, gli istituti di credito si troveranno zavorrati di crediti inesigibili. Se non verranno prorogate le moratorie e se agli agli Utp (gli incagli) verranno applicate in modo rigido le regole sulla svalutazione, è evidente che si configura la tempesta perfetta.

Debito buono, va detto, finora se ne è visto poco. “Il governo ha speso in chiave assistenziale, cosa inevitabile nelle condizioni in cui ci siamo trovati. Ma è evidente che manca uno sguardo prospettico sulle priorità per la ripresa”. Il Piano per la ripresa e la resilienza, che detta le linee guida per l’allocazione delle risorse del Recovery Fund, dice “pochissimo sul lavoro e tace addirittura sulle banche”. Se queste sono le premesse “è chiaro che gli oltre duecento miliardi attesi non lasceranno tracce durature sul tessuto economico del Paese”. E poi?

L’interrogativo riguarda anche il ruolo del sindacato. La mancata convocazione a Palazzo Chigi, chiesta da Cgil Cisl e Uil proprio per avanzare proposte sul Recovery Fund, ha raffreddato parecchio i rapporti con il governo. Le confederazioni non vogliono essere confinate nella dimensione dell’emergenza. Quando la casa brucia, ecco che i sindacati tornano utili, quando c’è da ricostruire si fa da soli: questo il senso, o meglio l’accusa, delle parole pronunciate dal segretario confederale Giorgio Graziani.

Fuori dalla bagarre politica, tuttavia, il sindacato continua a lavorare, a seminare per il futuro, a produrre idee. Idee che saranno fondamentali non solo per gestire le ricadute sociali della pandemia, ma anche per governare la transizione tecnologica, l’altra grande sfida. Ecco perché in questo momento acquista particolare rilevanza l’iniziativa con cui il 22 settembre First Cisl chiamerà attorno ad un tavolo a parlare di smart working politica ed esperti. “Lo smart working – riflette Colombani – è un fenomeno che “va governato attraverso la contrattazione, non deve diventare un’arma con cui destrutturarla”.

Contrattazione che, ovviamente, non è l’unico strumento in mano al sindacato per riaffermare la centralità del lavoro. Il cambiamento del paradigma economico offre l’occasione per un investimento deciso, politico e culturale, sulla partecipazione: “Penso soprattutto alla partecipazione finanziaria strutturata, credo che sia la formula migliore per raggiungere il fine della partecipazione decisionale”. Questa è la strada maestra, conclude Colombani, perché il sindacato continui la sua missione di  “soggetto di trasformazione sociale”.