Mezzo secolo fa, con lo Statuto dei Lavoratori, i valori costituzionali furono recepiti anche dal diritto del lavoro, conferendo centralità alla persona. Ciò non era avvenuto negli anni precedenti, nonostante le conquiste che avevano punteggiato il percorso del movimento sindacale.
Prima che Gino Giugni, Giacomo Brodolini e Carlo Donat Cattin distillassero la legge 300 dal lungo percorso di elaborazione delle migliori culture riformiste italiane, le libertà sindacali erano di fatto ancora negate. Erano considerate, negli ambienti più conservatori, un ostacolo all’esercizio della libertà d’impresa. I diritti dei lavoratori, cui più tardi ci siamo abituati a pensare come un dato inscritto da sempre nel paesaggio sociale del Paese, non erano pienamente esigibili. Si poteva venir licenziati per aver espresso un’opinione politica o per aver aderito ad un’organizzazione sindacale: bastava trovare un pretesto e, in assenza di tutela giurisdizionale, difendersi era molto difficile.
Lo Statuto dei Lavoratori determinò un balzo in avanti, anche se era in realtà il frutto maturo di un dibattito, ampio e non di rado acceso, che aveva scandito gli anni ’60 in coincidenza con il boom economico e il definitivo ingresso dell’Italia nel novero delle potenze industriali. Un Paese uscito distrutto dalla seconda guerra mondiale era riuscito a rimettersi in piedi nel giro di pochi anni, guadagnando per di più grazie al ruolo giocato nella costruzione europea un nuovo protagonismo sulla scena internazionale.
Era viva tuttavia la consapevolezza che in parallelo ai grandi risultati economici non si era sviluppato un cammino di emancipazione sul piano civile e sociale, che la mancanza di diritti e tutele ci teneva ancora un passo indietro rispetto alle moderne democrazie occidentali. Non a caso nel dicembre del 1963 Aldo Moro, chiedendo alla Camera la fiducia per il suo governo, affermava: “Il Governo esprime il proposito di definire, sentite le organizzazioni sindacali, uno statuto dei diritti dei lavoratori al fine di garantire dignità, libertà e sicurezza nei luoghi di lavoro”.
Il merito dei sindacati, in quegli anni, fu di sapersi mettere in ascolto della società, dei movimenti, della protesta che montava nelle fabbriche così come tra i giovani, nelle piazze e nelle università. La richiesta di un allargamento dello spazio dei diritti della persona venne canalizzata in favore dell’intera collettività. Perché lo Statuto, va ricordato, non ha solo migliorato la condizione dei lavoratori e consentito lo sviluppo delle relazioni sindacali, ma soprattutto ha innalzato la qualità della vita democratica.
Ciò non è avvenuto, come qualcuno temeva, a scapito dell’autonomia collettiva, che dalla legge ha tratto invece impulso. L’equilibrio sempre difficile tra regolazione normativa e contrattazione costituisce anche oggi il discrimine tra le proposte che si rincorrono per adeguare lo Statuto all’evoluzione della società e dei rapporti economici.
La Cisl ha sempre preferito lasciare all’autonomia delle parti, anziché al legislatore, la definizione del regole sul lavoro. È così anche riguardo alla partecipazione dei lavoratori alla gestione delle imprese, l’unica formula in grado di tradurre in una nuova stagione di progresso sociale le loro aspirazioni. Sebbene una legge che ne incentivi l’applicazione sia necessaria, è importante che essa si configuri come una normativa “di cornice”, che non detti cioè una disciplina tanto stringente da irreggimentare la partecipazione entro soluzioni precostituite.
Non c’è dubbio che un nuovo Statuto dei Lavoratori, aggiornato ai “segni dei tempi”, realmente in grado di fornire risposte ai nuovi bisogni e alle nuove fragilità che da tempo emergono nel mondo del lavoro, non potrà essere imperniato su una raffica di norme che fissano in astratto diritti che poi nella prassi si rivelano inesigibili. La strada da battere è quella opposta: valorizzare l’autonomia e il deposito di conoscenze dei soggetti sociali, lasciarli liberi di definire una via italiana alla partecipazione che non ricalchi solo modelli già sperimentati in altri paesi, per poi modellare le nuove regole sulla base degli accordi che essi troveranno.
Quel di cui abbiamo bisogno è investire sulle persone, sulla loro responsabilità e creatività, per indicare, proprio come avvenne cinquant’anni fa, la strada dell’affermazione come cittadini e come lavoratori.
Roma, 20 maggio 2020
Riccardo Colombani, segretario generale First Cisl