Chi di frecciatine su Facebook ferisce…non perisce!

È priva del carattere illecito, da un punto di vista oggettivo e soggettivo, e dunque incompatibile con la giusta causa di licenziamento la condotta ascritta al lavoratore (riconducibile piuttosto alla libertà, costituzionalmente garantita, di comunicare riservatamente) che, nel corso di una conversazione su Facebook, rivolge parole ingiuriose nei confronti dell’amministratore delegato della società datrice di lavoro (Cass. Civ., Sez. Lav., 10.9.2018, n. 21965).

Dichiarato illegittimo il licenziamento intimato ad un Lavoratore per le offese rivolte dal medesimo all’amministratore delegato nel corso di una conversazione  intervenuta

su Facebook e la cui schermata, stampata, sarebbe pervenuta all’Azienda per mano di un anonimo.

La Suprema Corte ha osservato che, ai fini della giusta causa di licenziamento, la condotta del lavoratore deve essere valutata avendo riguardo agli standards, conformi ai valori dell’ordinamento, esistenti nella realtà sociale, nella cui cornice devono essere collocate e contemperate le esigenze di tutela della dignità della persona rispetto a condotte offensive o diffamatorie e degli altri beni o interessi costituzionalmente rilevanti.

Se è pur vero infatti che la condotta diffamatoria lede il bene giuridico della reputazione, cioè l’opinione positiva che i consociati hanno di una determinata persona, dal punto di vista etico e sociale, ove la comunicazione con più persone avvenga in un ambito privato, cioè all’interno di una cerchia di persone determinate, non solo vi è un interesse contrario alla divulgazione, anche colposa, dei fatti e delle notizie oggetto di comunicazione, ma si impone l’esigenza di tutela della libertà e segretezza delle comunicazioni stesse.

Quindi, l’esigenza di tutela della segretezza nelle comunicazioni si impone anche riguardo ai messaggi di posta elettronica scambiati tramite mailing list riservata agli aderenti ad un determinato gruppo di persone, alle newsgroup o alle chat private, con accesso condizionato al possesso di una password fornita a soggetti determinati.

I messaggi che circolano attraverso le nuove “forme di comunicazione”, ove inoltrati non ad una moltitudine indistinta di persone ma unicamente agli iscritti ad un determinato gruppo, come appunto nelle chat private o chiuse, devono essere considerati alla stregua della corrispondenza privata, chiusa e inviolabile.

Tale caratteristica è logicamente incompatibile con i requisiti propri della condotta diffamatoria, ove anche intesa in senso lato, che presuppone la destinazione delle comunicazioni alla divulgazione nell’ambiente sociale.

Nel caso di specie, la conversazione tra gli iscritti al sindacato era da essi stessi intesa e voluta come privata e riservata, uno sfogo in un ambiente ad accesso limitato, con esclusione della possibilità che quanto detto in quella sede potesse essere veicolato all’esterno (tanto che ciò è avvenuto per mano di un anonimo), il che porta ad escludere qualsiasi intento o idonea modalità di diffusione denigratoria.

La mancanza del carattere illecito – da un punto di vista oggettivo e soggettivo – della condotta ascritta al lavoratore, riconducibile piuttosto alla libertà, costituzionalmente garantita, di comunicare riservatamente, assorbe la necessità di esaminare il profilo dell’applicabilità al caso di specie delle esimenti di cui agli artt. 599, comma 2, e 51, comma 1, c. p. e, quindi, ogni profilo di rispetto o meno della continenza nell’esercizio del diritto di critica.

Anche in riferimento al Sindacalista che esprime un parere negativo sull’Azienda, lo stesso non è licenziabile, se  rispetta il limite della correttezza formale e sostanziale

Con una recente pronuncia (Sentenza 10 Luglio 2018, N. 18176), la Suprema Corte ha colto l’occasione per soffermarsi sui contorni del diritto di critica del lavoratore sindacalista, riconoscendo allo stesso il diritto a manifestare il proprio pensiero in ossequio al disposto dell’Art. 21 della Costituzione.