Infibulazione, una pratica troppo diffusa: Kurdistan Rasul e Suhair Al-Bataa.

L’infibulazione consiste nell’ablazione parziale o totale della clitoride e delle piccole labbra. Parte delle grandi labbra possono essere ugualmente asportate. La vulva è in seguito ricucita, lasciando un’apertura per urina e sangue mestruale.

Non è solo una mutilazione chirurgica dei genitali femminili: la mutilazione è sociale e culturale, dovuta ad antiche usanze che pretendevano di garantire principalmente la purezza della donna con l’ago e filo della barbarie.

L’infibulazione viene praticata per una serie di motivazioni. Possono essere legate al sesso, per soggiogare o ridurre la sessualità delle donne, ma anche sociologiche, per iniziare le ragazze all’età adulta. Una donna non infibulata non è pura e non può trovare marito.

Molti paesi esercitano questa crudeltà ritenendo che i genitali femminili siano portatori di infezioni, oppure che essa possa favorirne la fertilità e la sopravvivenza del feto.

In ogni caso c’è la credenza infondata che siano proprio i testi religiosi a prevedere e legiferare il ricorso all’infibulazione. In realtà essa non è indicata nel Corano, mentre per il cristianesimo, sebbene sia considerata un peccato contro la santità del corpo, si è conservata soprattutto tra i copti.

 

Kurdistan Rasul. L’attivista curda che si batte contro le mutilazioni genitali
Nel Kurdistan iracheno, moltissime donne subiscono questa violenza, per la quale, troppo spesso si muore. Lo sa perfettamente Kurdistan Rasul, che dopo averla subita, ha deciso di sensibilizzare uomini e donne, viaggiando di villaggio in villaggio.

Dice Kurdistan Rasul: “Quando ero piccola correvo così veloce… Ero così piccola, e quando è arrivato il momento ho cominciato a correre. Tutti i bambini del villaggio si sono messi a inseguirmi. Erano maschi e femmine. Hanno finito per prendermi e mi hanno circoncisa.”

Kurdistan Rasul è arrabbiata, rabbia che trasforma in anni di attivismo, come membro dell’ONG tedesca Wadi per i diritti delle donne. Setaccia il Kurdistan iracheno senza fermarsi mai. Si batte perché “nessuna bambina debba più subire ciò”.

Lo schema è sempre lo stesso: appena arriva in un villaggio interpella le anziane del villaggio ed esige di riunire tutte le donne ad ascoltarla. Esordisce in maniera schietta, dura: “Se una donna accetta di essere circoncisa, accetterà qualunque altra forma di violenza le venga fatta”.

Il pubblico è diffidente. Le donne presenti, di tutte le età, sono sconvolte, confortate dalla tradizione che le ha mutilate, ma scioccate dalle parole di questa attivista dal viso tondo e sorridente che le vorrebbe emancipate. Kurdistan Rasul elenca i rischi e le sequele dell’infibulazione.

“Quando l’emorragia o l’infezione non compromettono fin da subito la vita della bambina, saranno in seguito la depressione, i dolori mestruali e durante i rapporti sessuali o ancora i rischi mortali esponenziali durante il parto a minacciare la donna durante tutta la sua vita”.

Le ascoltatrici annuiscono, ma alcuni mullah oppongono motivazioni religiose per giustificare l’infibulazione, ma “questo non sta scritto da nessuna parte nel Corano”, ribadisce Kurdistan Rasul, mentre si dirige a passo di carica verso la moschea del villaggio.

La musulmana praticante vuole rivolgersi anche agli uomini che, impacciati come adolescenti a un corso di educazione sessuale, si dispongono docilmente in semicerchio. “Siete il capo famiglia, avete il diritto di dire che non volete che venga fatto questo a vostra figlia”, li esorta.

 

Suhair, detta Su-su, aveva 13 anni
Quella mattina dell’estate del 2013, Suhair Al-Bataa, detta Su-su, aveva un bruttissimo presentimento.

Per volere della famiglia, è stata portata nella clinica di un medico per la “circoncisione femminile”, come era già successo due anni prima a una delle sue sorelle, Amina, e come avviane peraltro ad almeno il 90% delle donne egiziane sotto i 50 anni.

Suhair Al-Bataa sentiva che qualcosa sarebbe andato storto, come hanno raccontato le amiche a una giornalista. Anche la nonna, sottoposta lei stessa alla pratica all’età di 9 anni, ha confermato che Suhair non ci voleva andare. “Aveva pianto, aveva rifiutato”. Ma il padre la costrinse.

Prima di obbedire, Suhair Al-Bataa aveva raccomandato alla sorella maggiore di prendersi cura della più piccola e al calzolaio che le aveva riparato le scarpe disse che forse quella sarebbe stata l’ultima loro conversazione.

Suhair Al-Bataa è morta nella cittadina di Mansoura, in cui era nata, nel delta del Nilo. Non diventerà mai una giornalista come avrebbe voluto: l’autopsia dice che ad ucciderla è stato “un calo repentino della pressione sanguigna in seguito ad un trauma”.

Non è stata la famiglia a sporgere denuncia, bensì alcuni attivisti. Il padre di Suhair è stato condannato a tre mesi di carcere con la condizionale, mentre il medico Raslan Fadl, che praticava diverse circoncisioni femminili al giorno, è stato condannato solo a due anni di carcere più una multa.

“Una vittoria monumentale” la definisce l’associazione “Equality Now”. A poco a poco qualcosa sta cambiando: tuttavia la strada da percorrere è ancora tortuosa, perché bisogna abbattere gli aspetti culturali di una tradizione profondamente radicata.

Lo zio di Suhair ha interpretato la morte della nipote come volere di Dio. La nonna ha raccontato al quotidiano inglese Independent che la nipotina “era una ragazzina dolce come il miele”, ma la circoncisione femminile non è una pratica malvagia.

Dopo la morte di Suhair Al-Bataa la mutilazione genitale femminile continua nel suo villaggio. Secondo il giornale egiziano Masry El Youm, il medico Raslan Fadl aveva offerto l’equivalente di quasi tremila dollari ai familiari per farli tacere.

 

Per combattere questa orribile pratica, è necessario capire…
La mutilazione genitale femminile è una delle più devastanti pratiche cui vengono sottoposte le ragazze e le bambine dell’Africa orientale, della penisola araba e del sud-est asiatico. Spesso si tratta di ragazze tra i nove e i tredici anni, ma a volte hanno appena sei anni.

In Egitto avrebbe avuto origine già prima dell’avvento dell’Islam (è chiamata “circoncisione faraonica”) mentre non è praticata in Paesi ben più conservatori nel Golfo.

Bambine costrette come al macello ad essere tagliate, mozzate di uno di quei luoghi più sacri di sé, luogo d’amore e creazione. Neppure la clemenza di un’anestesia. I pezzi si tagliano con mani armate di lametta e bacinella con acqua e sale per lavare via… buttare via l’anima di quella bambina.

Si muore per emorragia, per reazioni allergiche e, per tutte coloro che sopravvivono le conseguenze possono andare da infezioni all’infertilità e a rischi gravi durante il parto. Oltre che aver perso completamente la propria dignità di donna, costretta per sempre alla sottomissione.

Si obbliga la donna a una castità costrittiva che si esplicita nella chiusura della vulva (riaperta dal marito solo dopo il matrimonio) e le si nega il godimento della propria sessualità attraverso l’escissione della clitoride.

Per molte culture africane l’infibulazione è espressione di un rito iniziatico ovvero il passaggio della ragazza all’età adulta. Per altre è sinonimo di pulizia e purezza. Per talune rappresenta un mezzo per preservare la verginità delle giovani donne. Occorre osservare però che nei paesi d’origine, la cerimonia di iniziazione sta gradualmente scomparendo e l’età in cui la mutilazione viene eseguita si sta notevolmente abbassando.

Un uomo nato in un paese dove la mutilazione sessuale è pratica comune, non sarà mai disposto a sposare una donna che non sia infibulata, escissa o perlomeno circoncisa.

 

Motivazione religiosa
L’infibulazione è legata a culture tribali precedenti la cristianizzazione e l’Islam. Paradossalmente, malgrado il Corano la vieti, questa pratica si riscontra per lo più nei paesi di fede musulmana. La circoncisione femminile sancita dalla Shari’ah riguarda l’asportazione parziale (e non totale) della clitoride. Ndr: la giurisprudenza coranica ammette, fra le cause di divorzio, difetti fisici della sposa, come ad esempio una circoncisione mal riuscita.

 

Varietà geografica
Tra il 90 e il 100% delle donne sono infibulate in: Egitto, Sudan settentrionale, Sierra Leone, Eritrea, Djibouti e Somalia. In Burkina Faso, Etiopia, Gambia, Mauritania, la diffusione è maggioritaria ma non universale. In altri paesi, Ciad, Costa d’Avorio, Guinea Bissau, Kenya e Liberia, la percentuale tende ad abbassarsi.

L’UNICEF riporta che secondo i dati dell’OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità), sono tra 100 e 140 milioni le bambine, ragazze e donne nel mondo che hanno subito una qualche forma di mutilazione genitale. L’Africa è di gran lunga il continente in cui il fenomeno è più diffuso (monitorato in 27 paesi), con 91,5 milioni di ragazze di età superiore a 9 anni vittime di questa pratica, e circa 3 milioni di altre che ogni anno si aggiungono al totale.

 

Che cosa sta facendo la Cisl
L’infibulazione uccide la donna nel suo intimo, se non addirittura le toglie la vita. Come Cisl e First vogliamo abbattere questo muro di omertà che ancora esiste e che non permette alla Donna di vivere la propria femminilità e realizzare il proprio ruolo sociale.

“In continuità con il nostro impegno contro la violenza di genere e con la nostra Campagna permanente di sensibilizzazione per prevenire e contrastare l’odiosa e dannosa pratica delle Mutilazioni Genitali Femminili (MGF), abbiamo predisposto anche per quest’anno un Manifesto, in vista della Giornata Internazionale che si celebra in febbraio.

“TOLLERANZA ZERO” nei confronti delle MGF, fenomeno riconosciuto a livello internazionale come una violazione dei diritti umani e come una forma estrema di discriminazione di genere, e anche per le conseguenze che provocano sulle ragazze, una violazione dei diritti della persona, alla salute, alla sicurezza, all’integrità fisica e ad essere libera da torture e trattamenti disumani.

Le ripetute sollecitazioni della Comunità internazionale, ad intraprendere azioni e iniziative di prevenzione e contrasto a riguardo, hanno determinato negli anni una riduzione del fenomeno, aprendo la strada alla messa al bando delle MGF in diversi paesi dove la pratica è maggiormente diffusa. In Tanzania, ad esempio, una legge ad hoc è in vigore dal 1998, in Kenya dal 2011, in Liberia da gennaio 2018.

Vietare, ovviamente è importante ma non basta, la strada maestra contro le MGF resta l’informazione e la sensibilizzazione di donne e uomini per far comprendere loro che le conseguenze sulla salute fisica e psicologica delle loro figlie sono devastanti.

Lo slogan del nostro Manifesto, “Insieme per l’eliminazione delle Mutilazioni Genitali Femminili entro il 2030”, in linea con l’obiettivo ONU di sradicare definitivamente le MGF entro questa data (obiettivo 5 dell’Agenda per lo sviluppo sostenibile), rimarca l’importanza e la necessità del concorso di tutti per conseguire quello che sarà, senza alcuna retorica, un traguardo storico di civiltà.

Anche questa è la Cisl, la confederazione a cui aderisce la First.

Federica Pattini, Referente regionale di genere e pari opportunità First Cisl Emilia Romagna

 

 

In copertina: “Mi piego al tuo amore”, di Roberta Stifano in Dadà, particolare.