Volti cancellati: Lucia Annibali e Hatshepsut

Una moderna disciplina nota come morfopsicologia afferma che è possibile svelare l’indole delle persone attraverso lo studio delle forme del volto. Secondo tale teoria ogni individuo manifesta nelle sue forme, dunque nel viso, il proprio vissuto temporale e spirituale.

Il volto è il nostro biglietto da visita, una mutevole fotografia per il mondo che ci circonda ed un riflesso sincero che ogni giorno, allo specchio, ci ricorda chi siamo, dove siamo e come siamo giunti a quel momento. Non a caso Cicerone definiva il volto “l’immagine dell’anima e gli occhi i suoi interpreti”.

L’anima. È proprio l’anima che si intende lacerare usando l’acido come arma. Non un proiettile, non un coltello. Le aggressioni con l’acido sono una forma premeditata di violenza volta a sfigurare, mutilare, bruciare, fino a mostrare le ossa di quelle vittime che, da quel momento in poi, cesseranno di esistere.

Nessun volto familiare quando ti guardi allo specchio o quando incontri un amico d’infanzia. L’essere umano che eravamo sparisce dalla terra, lasciando al suo posto una vittima condannata a convivere con una persona estranea a sé stessa che non si riconosce nella fotografia scattata la sera precedente, ma sarà costretta a ricordarsi per sempre del suo carnefice anche solo passando tra le vetrine di un qualsiasi negozio del centro.

Cancellare. È questo l’obiettivo degli aggressori. Far sparire senza uccidere, una condanna al dolore plateale e senza fine.

È questa la pena inflitta a Lucia Annibali, giovane avvocatessa marchigiana nota alle cronache per l’aggressione subita il 16 aprile 2013.

Quella notte Lucia sta rincasando. Ha 36 anni e in una mano il borsone della palestra. Nell’altra un sacchetto con la cena d’asporto e i numerosi impegni quotidiani. Così, assorta nei suoi pensieri, giunge davanti alla porta del suo appartamento. Sono le 21.20. La serratura scatta immediatamente. Lucia rimane stupita poiché è solita chiudere con quattro mandate, ma senza badarci troppo entra.

Improvvisamente un lampo nel buio. Qualcosa colpisce il volto di Lucia.

“Ricordo la mia faccia che friggeva, rantolavo. Ho fatto in tempo a specchiarmi un istante prima che gli occhi non vedessero più niente. Ero grigia, c’erano bollicine che si muovevano sulle mie guance. Urlavo, urlavo tantissimo…”

Non ha il tempo di fuggire, sente solo l’atroce dolore del suo viso che lentamente si scioglie. Con la vista annebbiata si lancia contro la porta dei vicini e grida con tutto il fiato che ha in gola il nome di un uomo.

Poi il buio.

L’uomo è un avvocato di Pesaro, suo coetaneo. Incontra per la prima volta Lucia nell’aula di un Tribunale nel 2004. Nel 2009 si rincontrano ed inizia, un po’ per caso e un po’ per gioco, una relazione, ma Lucia ignora che quell’uomo è già legato, da dieci anni, ad un’altra donna.

La storia prosegue per un anno, finché un giorno Lucia scopre, da un’amica in comune, la doppia vita dell’uomo e lo smaschera, rivelando tutto all’altra donna ed interrompendo immediatamente il rapporto.

L’uomo si trasforma in uno stalker.

Tra suppliche e minacce, corteggiamenti e pressioni psicologiche, ancora innamorata, Lucia cede. Ricominciano a vedersi assiduamente, fino a quello che per Lucia rappresenta il punto di rottura. Un gesto imperdonabile: uno schiaffo tirato durante una scenata di gelosia.

La storia finisce e ricominciano le persecuzioni.

Lo stalker la segue, la controlla, si apposta in palestra per rubare, dallo spogliatoio, il cellulare, le chiavi dell’auto e quelle di casa. Iniziano a verificarsi episodi strani: l’impianto del gas viene manomesso e un giorno Lucia quasi prende fuoco utilizzando la cucina. L’agguato non ha gli effetti desiderati e lo stalker decide di ingaggiare due losche figure per portare a termine il malefico piano.

Mentre Lucia viene aggredita, lo stalker è ad una partita di calcetto, ma bastano poche ore ai carabinieri per individuarlo come mandante e responsabile di quel tragico episodio. Lo stalker diventa così il carnefice.

La condanna è a venti anni di reclusione, pena riconfermata il 10 maggio 2016 dalla prima sezione penale della Cassazione per i reati di stalking e tentato omicidio.

Negli anni Lucia è stata sottoposta a diciassette interventi per la ricostruzione del viso. La sua vita è cambiata, ma non si è mai voluta nascondere. Il suo caso ha avuto una risonanza internazionale, anche per l’impegno che l’avvocatessa ha mostrato nel sensibilizzare l’opinione pubblica contro ogni forma di violenza sulle donne, sia essa fisica o psicologica.

L’8 marzo 2014 l’allora capo di Stato Giorgio Napolitano l’ha insignita della carica di Cavaliere al merito della Repubblica.

L’obiettivo del suo carnefice di eliminare, cancellare e distruggere per sempre Lucia è dunque fallito, miseramente.

Sebbene negli ultimi anni, soprattutto in Italia, i casi di aggressione con l’acido sono frequentemente associati a violenze di tipo passionale, si tratta purtroppo di una pratica diffusa in tutto il mondo ed avente i più svariati moventi.

In Bangladesh ad esempio, dove questa forma di aggressione è, purtroppo, molto comune, si tratta per lo più di una forma di violenza domestica.

In India, considerato il quarto paese al mondo più pericoloso per la sicurezza delle donne – secondo un’indagine condotta dalla fondazione Thomson Reuters – questi attacchi rappresentano per lo più una forma di vendetta contro giovani donne che hanno avuto il coraggio di rifiutare una proposta di matrimonio o per aver osato chiedere il divorzio.

In Pakistan i casi di aggressione sono invece legati, soprattutto, a delitti d’onore.

In ogni caso l’obiettivo comune è unico: distruggere la vittima, annientarla psicologicamente e renderla irriconoscibile. Farla scomparire.

Da sempre ci hanno provato, in ogni epoca e con mezzi diversi, come nel caso di Hatshepsut, una donna vissuta circa 3500 anni fa, che governò l’Egitto sfidando il potere maschile del tempo.

Figlia di Thutmose I, il grande Faraone che riuscì ad espandere il suo impero fino al fiume Eufrate, alla sua prematura morte, Hatshepsut gli succedette al trono.

Non si tratta della prima donna faraone: era già accaduto durante l’Antico Regno ed una seconda volta durante il Medio Regno, ma le due precedenti donne faraone avevano regnato in periodi di crisi. Hatshepsut, invece, è a capo di un Egitto ricco e potente.

Intelligente, abile, dotata di capacità amministrative e di uno spiccato senso politico, Hatshepsut decide di essere “re” (e non regina) assumendo caratteristiche maschili. All’inizio, pur essendo rappresentata con attributi femminili, si afferma come faraone; poi adotta il costume maschile, il protocollo dei re, sopprime la desinenza femminile nei suoi nomi e nei suoi titoli e porta la barba posticcia e la doppia corona.

Grazie anche all’opera dei suoi predecessori, Hatshepsut vive un’epoca di pace e ne approfitta per dedicarsi alla gestione economica del paese e soprattutto ad un’intensa attività architettonica che avrebbe reso eterno il suo nome.

Da sempre l’uomo ha cercato di lasciare una traccia di sé nel mondo. In tal senso le piramidi di Egitto rappresentano sicuramente l’esempio più plateale: imponenti costruzioni architettoniche con lo scopo sì di accogliere le salme dei faraoni o dei nobili del tempo, ma al contempo con l’obiettivo di ricordare, alle future generazioni, le eroiche imprese dei loro predecessori: Hatshepsut intraprende così la costruzione della propria tomba, edificando un nuovo complesso funerario nella Valle dei Re.

Inoltre, per legittimare il proprio diritto al trono, fa raffigurare sulle pareti del Tempio di Deir el-Bahari il mito della sua nascita, evocando la consacrazione del Dio egizio Amon, indicato come protettore della dinastia e vero padre di Hatshepsut.

Hatshepsut morì in età matura, intorno al suo ventiduesimo anno di regno, anno in cui Thutmose III divenne nuovo faraone d’Egitto. Verso la fine del regno di Thutmose III e durante quello del figlio Amenofi II, ebbe inizio la graduale cancellazione dell’iconografia raffigurante Hatshepsut dai monumenti e dalle cronache faraoniche nel modo più “letterale” possibile: vennero raschiate le immagini, fu cancellato il nome su lastre, marmi e papiri e numerose sculture raffiguranti il suo volto furono ridotte in frantumi o sfigurate per poi essere sepolte in un pozzo. A Karnak si tentò di nascondere con un muro un suo obelisco.

Alcuni egittologi lessero queste censure come un qualcosa di simile alla damnatio memoriae dell’antica Roma (letteralmente “condanna della memoria”).

Le nostre storie sono lontanissime nel tempo e apparentemente diverso è il movente e lo scopo degli autori, in quanto diverso è il periodo storico, la cultura e le persone coinvolte.

Tuttavia, da un’analisi più profonda è evidente che, a prescindere dal movente politico o passionale, l’obiettivo è comune: cancellare un volto, un nome, una personalità.

Ovunque nel mondo una donna su tre ha vissuto una forma di violenza fisica o sessuale, cui si aggiungono altre forme di violenza quali, ad esempio, quella psicologica ed economica.

Malgrado le diffuse e moderne paure che le “ondate migratorie” creano nell’immaginario collettivo, queste violenze il più delle volte sono perpetrate, come nelle nostre due storie, da partner, ex o familiari.

Per fortuna non è così facile distruggere donne dal calibro di Lucia Annibali o di Hatshepsut e di tutte le numerose vittime che riescono, nonostante il dolore e le ferite, a ritrovare la strada per lasciare una traccia di sé come monito e testimonianza di forza e di coraggio per tutte noi donne, certo più fortunate, ma mai completamente estranee alle pressioni di questa società che, al netto di una diffusa e mai del tutto superata concezione patriarcale, ci considera inferiori e di esclusiva proprietà dei nostri fidanzati, dei nostri mariti o dei nostri padri.

Il 9 agosto 2019 è entrato in vigore il c.d. “codice Rosso” il quale ha introdotto, tra l’altro, il nuovo reato “di deformazione dell’aspetto della persona mediante lesioni permanenti al viso, sanzionato con la reclusione da otto a quattordici anni. Quando, per effetto del delitto in questione, si provoca la morte della vittima, la pena è l’ergastolo”.

Le leggi e le campagne di sensibilizzazione sono fondamentali, tuttavia è necessario innanzitutto non lasciare sole le vittime e soprattutto condannare e denunciare qualunque atto discriminatorio e/o violento in qualunque ambiente perpetrato: lavoro, scuola, famiglia.

Ancora una volta l’arma più forte per combattere questo tipo di violenze è rappresentata da un radicale cambiamento culturale. La strada è lunga e c’è ancora tanto da fare, ma storie come quelle di Lucia Annibali e di Hatshepsut ci dimostrano che le donne forti si piegano, ma non si spezzano né cancellano mai!

Lucia Sacco, Dirigente Sindacale First Cisl Emilia Centrale.

 

 

 

In copertina: “Le lacrime di Freyja” di Anne Marie Zilberman, particolare.