Smart Working e ambiente di lavoro, due interrogativi molto interessanti

Nei giorni scorsi Daniele Di Fausto su huffingtonpost.it si è interrogato sull’andamento dello smart working in Italia: “Smart working, una moda o un cambiamento radicale?” è l’interrogativo posto dal Ceo di eFM, un’azienda romana che si occupa di ingegneria gestionale.

L’occasione è offerta dai dati resi noti recentemente dal Politecnico di Milano; gli smartworkers aumentano così come aumentano le aspettative dei lavoratori e delle aziende interessate. Tutti sono consapevoli dei grandi vantaggi che lo smart working produce per le persone, l’azienda, l’ambiente e così via, scrive Di Fausto. Tutto bene dunque.

Il quesito iniziale si rivolge però su un ulteriore aspetto che nasce dal fatto che la nuova modalità di erogazione della prestazione lavorativa si inserisce in un contesto generale in cui la tecnologia rende le persone sempre e ovunque interconnesse. Cosa succede alle persone in un mondo lavorativo così destrutturato?

L’articolo è molto interessante ma non prende in considerazione i risvolti sindacali di una prestazione lavorativa in un’ottica in cui i confini aziendali, non solo fisici, sembrano scomparire del tutto.

Un altro articolo da non perdere che ci consegna la rete è, in realtà, un secondo interrogativo che suona come un’accusa grave verso le aziende italiane. Fausta Chiesa sul corriere.it chiede: “Perché le nostre aziende non vincono mai il titolo di Great Place to Work? “.

La risposta è già nel sottotitolo: mancanza di trasparenza e meritocrazia innanzitutto. Nell’articolo si citano alcune aziende di livello internazionale ma nessuna banca. Né in Italia né all’estero.