Smart working, il diritto di disconnessione durante l’emergenza coronavirus

Su la Repubblica, che titola “Smart working, il diritto di disconnessione travolto dal coronavirus”, intervistato dalla giornalista Rosaria Amato il segretario generale di First Cisl, Riccardo Colombani, fa il punto sul ricorso allo smart working nelle banche italiane.

“Con la pandemia – scrive la giornalista – il lavoro è entrato da un giorno all’altro nelle case di oltre quattro milioni di italiani, rivoluzionando i tempi e le abitudini, e lasciando spesso esausti dipendenti che si sono trovati a dover rispondere a capiufficio esigenti a qualunque ora e in qualunque giorno della settimana. Eppure la legge sul lavoro agile (l.81/2017) garantisce in modo molto preciso il diritto di disconnessione, dando mandato agli accordi individuali o aziendali di definire «i tempi di riposo del lavoratore nonché le misure tecniche e organizzative necessarie per assicurare la disconnessione del lavoratore dalle strumentazioni tecnologiche di lavoro». La normazione d’urgenza ha però fatto saltare l’obbligo di accordo tra lavoratore e datore di lavoro, esponendo moltissimi dipendenti a uno smart working non regolamentato e spesso invasivo”.

“L’emergenza ha rimescolato le carte – conferma Giorgio Molteni, avvocato giuslavorista dello studio Trifirò & Partners – con un massiccio ricorso allo smart working, in modalità diverse. Nei settori dove erano già stati sottoscritti accordi aziendali e il diritto di disconnessione era in qualche modo regolamentato, è andata meglio. In tutti gli altri casi molti lavoratori abituati a svolgere la loro prestazione in ufficio si sono ritrovati a dover lavorare in orari insoliti, e magari per un periodo di tempo superiore. C’è stata una fortissima deregolamentazione, che ha provocato anche situazioni di disagio anche dovute al fatto che si era obbligati a rimanere in casa con i propri figli”.

“Solo due contratti collettivi di lavoro – ricorda Amato – prevedono al momento il diritto di disconnessione: il primo è quello del credito, in relazione allo smartworking, il secondo quello degli insegnanti, dove invece non c’è alcun collegamento al lavoro agile, che finora in effetti non era mai stato sperimentato in modo così ampio per le scuole, lo smartlearning di massa è l’ennesima scelta obbligata imposta dal coronavirus. Lo smartworking è entrato per la prima volta nel contratto del credito siglato alla fine dell’anno scorso, ed entrato il vigore il 6 marzo di quest’anno … Avendone la possibilità, per il tipo di lavoro e di servizi, il settore bancario dall’inizio dell’epidemia ha fatto un ricorso più che massiccio allo smartworking”.

“Il numero è più che raddoppiato”, spiega a Repubblica il segretario generale di First Cisl, Riccardo Colombani: “Non abbiamo numeri generali, ma banca per banca: per esempio in Unicredit circa 25 mila su 39 mila, in Intesa Sanpaolo su 65 mila almeno 24 mila nelle direzioni e 13 mila nelle filiali, in Ubi 10 mila su 19.500. Riusciamo a misurare lo smart working d’urgenza dal pc utilizzato: gran parte dei dipendenti utilizzano il proprio, significa che prima dell’epidemia non lavoravano in modalità agile, e la banca non ha fatto in tempo a fornire loro la strumentazione adeguata. Questo pone anche un problema della responsabilità della tutela dei dati”.

Unico settore con il diritto stabilito per contratto a non essere disturbati al di fuori dell’orario di lavoro con email e telefonate, i bancari in teoria sono dunque i lavoratori più tutelati anche nell’emergenza da indebite invasioni nel privato, anche se non sempre è andata così in questi giorni decisamente straordinari: “Ho sperimentato anche personalmente, come molti colleghi – osserva Colombani – come quando sei attaccato a dispositivi elettronici tu sia portato a lavorare molto di più. Con l’Abi abbiamo cercato di perimetrare i tempi di lavoro, ma non è stata la nostra priorità: in primo luogo abbiamo cercato di garantire la tutela dei lavoratori e della clientela, e lavorare da casa è stato indubbiamente la modalità più sicura. In ogni caso non ci risultano situazioni di iperconnessione continua e sistematica”.

La Repubblica riporta quindi alcune soluzioni per il diritto alla disconnessione adottate in altri Paesi, come indicate da Valentina Pomares, giuslavorista dello studio internazionale Eversheds Sutherland: “In Francia l’articolo 55 della Loi Travail approvata dal Parlamento ad agosto 2016 ed entrata in vigore il 1 gennaio 2017, prevede espressamente che le imprese con più di 50 dipendenti debbano garantire il diritto dei lavoratori a disconnettersi fuori dall’orario di lavoro, senza tuttavia prevedere alcuna specifica sanzione in caso di mancato rispetto. In Germania invece, sono state direttamente le aziende a prendere una posizione sul tema, prevedendo nei loro contratti aziendali specifiche possibilità di spegnere ogni device e non rispondere a messaggi e comunicazioni nei giorni di festa o nelle ore dedicate al propria vita privata. Per esempio, la compagnia di energia nucleare Areva o quella di assicurazioni Axa hanno previsto a livello aziendale dei limiti ai messaggi fuori orario, il colosso delle telecomunicazioni Deutsche Telekom già nel 2010 ha previsto che nessun dipendente fosse più costretto a leggere la posta elettronica dopo aver abbandonato la scrivania (dopo aver ammesso che venivano mandate email ai dipendenti a qualsiasi ora del giorno e della notte). Dalla fine del 2011, infine, Volkswagen spegne i server mezz’ora dopo la fine dei turni e li riaccende trenta minuti prima dell’inizio. Ed ancora, Bmw ha deciso che gli impiegati possano stabilire con i propri capi le ore di reperibilità extra ufficio, tracciando così conseguente il limite tra orario di lavoro ordinario e straordinario”.