Le banche, Draghi e lo Stato, è la governance la chiave del cambiamento

Il crollo dei prezzi di Borsa dovrebbe spingere già oggi il governo ad allargare il raggio d’azione del Golden power a settori che finora non erano stati annoverati, un po’ misteriosamente visto il loro peso specifico, tra quelli strategici. È un atto di cautela indispensabile. Di più: un dovere. Soprattutto se in gioco ci sono gli assetti proprietari di banche e assicurazioni.

Il fatto che anche il Copasir si stia occupando della materia dimostra che la nostra classe politica, spinta dagli eventi, sta prendendo finalmente coscienza che la neutralità dei mercati, uno dei postulati del teorema neoliberista, non è altro che un’illusione. Un’illusione che, in frangenti tempestosi, può condurre la barca al naufragio. È giusto quindi rafforzare gli ormeggi, purché il cambio di rotta non sia limitato alla fase contingente e poi, passato il pericolo, non si ritorni allo status quo. È una tentazione contro la quale è bene premunirsi per tempo. Ma anche se qualcuno dovesse accarezzarla, il che non è da escludere pensando ai settori più arretrati del nostro establishment, stavolta è assai difficile che la manovra riesca.

Il vento è cambiato e l’intervento di Mario Draghi sul Financial Times dovrebbe far capire a tutti in che senso ha preso a soffiare. L’ex governatore della Bce, l’uomo che nel 2012 ha salvato l’euro, assegna al sistema bancario un ruolo chiave nel piano di salvataggio a base di debito pubblico da lui proposto per le pericolanti economie del Vecchio Continente. Compito delle banche sarà fornire liquidità a costo zero alle imprese, in ciò aiutate dal governo, cui spetterà garantire tutto il capitale necessario tramite garanzie statali. Ma per farlo dovranno cambiare pelle, divenire “strumenti di politica pubblica”, insomma tornare – come ci sforziamo di dire da anni – ad assolvere alla loro missione di utilità sociale, quale la nostra Costituzione disegna. Missione che consiste – a norma dell’articolo 47 – nel tutelare il risparmio ed esercitare il credito, dunque propriamente “strategica” per la collettività.

Ci riusciranno? Qui sta il punto. È improbabile, a dir poco, che il sistema si riformi da sé. Quel che serve è il nudge, la “spinta gentile”, per adattare al contesto l’espressione resa celebre dal premio Nobel Richard Thaler. E ad imprimere questa spinta deve essere lo Stato. Non nazionalizzando le banche, perché non avrebbe senso reagire adesso con la pena del contrappasso agli eccessi della stagione delle privatizzazioni, ma modificandone il dna.

Tra le ipotesi che circolano c’è anche quella di attribuire al governo il potere di nominare un membro del consiglio di amministrazione. L’ingresso dello Stato nella governance viene presentato però come una extrema ratio, l’ultima linea su cui attestarsi per difendere le banche da razzie straniere. Forse non è troppo tardi, ma è sicuramente troppo poco. Perché il sistema bancario divenga realmente “strumento di politica pubblica”, come dice Draghi, è necessario che questa presenza sia resa stabile. Che non sia cioè finalizzata solo a tutelare l’interesse nazionale attraverso l’esercizio del Golden power, ma che abbia come suo baricentro proprio la funzione sociale cui richiama la Carta costituzionale.

Se mancano le coordinate teoriche per calare l’idea nella prassi legislativa, queste si possono rinvenire nel manifesto AdessoBanca! che abbiamo lanciato insieme alla Cisl all’inizio del 2018. Già due anni fa proponevamo infatti di istituire di la figura di un “garante pubblico” all’interno degli organi sociali elettivi di amministrazione ossia di un rappresentante delle autorità creditizie, nominato dal Mef su indicazione della Banca d’Italia. All’epoca non venimmo ascoltati. Ma le buone idee, supportate da un’azione continua, a quanto pare, iniziano a camminare anche con altre gambe.

Riccardo Colombani, segretario generale First Cisl