La parità reddituale nel settore bancario non c’è. Lo scrive Job Magazine, il mensile della Cisl della Lombardia, in un articolo dal titolo “In banca le donne ci sono ma guadagnano meno dei maschi”. “Resta il gap reddituale a vantaggio degli uomini – si legge sul quotidiano online – mentre part time e percorsi professionali di carriera collegati sono le cause principali che determinano la differenza reddituale tra uomini a donne nel mondo del credito”.
La ricerca sull’occupazione femminile nel settore bancario, realizzata dalla struttura nazionale “Donne e Politiche di Parità e di Genere” di First Cisl certifica “un gap di circa 10 punti percentuali a favore degli uomini”. I dati, elaborati dal Centro studi First Cisl, diretto da Riccardo Colombani, “evidenzia anche come la parità occupazionale di genere sia ormai un dato di fatto. Se cinque anni fa le donne erano il 43% del personale, all’inizio del 2017, stando ai bilanci delle “big five” Intesa Sanpaolo, UniCredit, Monte dei Peschi, Banco Bpm e Ubi rappresentano insieme più del 60% dell’occupazione bancaria”. “La ricerca – scrive Silvio Broccheri nell’articolo di Job Magazine – conferma la previsione annunciata dall’Associazione bancaria italiana in un convegno del 2012, secondo la quale tra il 2015 e 2017 i due generi sarebbero stati equamente rappresentati nell’occupazione del settore. Condizione favorita principalmente dall’accelerazione del processo di ristrutturazione del comparto del credito, fondato quasi esclusivamente sul dimagrimento degli organici che, solo nel 2017, ha prodotto accordi per quasi 20.000 esodi. Uscite volontarie dal mondo del lavoro che, considerata la politica relativa alle assunzioni, prevalentemente maschile, dominante fino agli anni ’80.
La segretaria nazionale di First Cisl e responsabile delle politiche di genere, Sara Barberotti, evidenzia come “a uscire siano soprattutto gli uomini, mediamente più anziani, poiché l’incremento della presenza femminile nelle banche ha preso avvio solo dagli anni ’80. Il tasso di occupazione femminile è comunque largamente minoritario rispetto a quello europeo, come è dimostrato anche dalla distribuzione del personale dei gruppi bancari a più spiccata propensione internazionale, UniCredit e Intesa Sanpaolo”.
“Nelle banche italiane – spiega il segretario generale di First Cisl, Giulio Romani – le donne stanno per raggiungere la parità di occupazione con gli uomini, a mancare invece è un contesto culturale, sociale e legislativo che ne consenta lo sviluppo professionale, oggi limitato dal fatto che la cura della famiglia e delle fasce più deboli grava quasi tutta su di loro”.
Dall’analisi dello studio elaborato da First Cisl, prosegue “Jobnotizie.it” “si evince che UniCredit occupa in Italia circa 21.700 donne pari al 44% del personale mentre negli altri paesi europei arrivi al 65% circa 51.700 donne contro 27.700 uomini con punte del 77% in Bulgaria e Polonia, del 75% in Croazia e del 72% in Romania, mentre Germania e Austria sono al 54%. Nel perimetro italiano di Intesa Sanpaolo, invece, già a fine 2016 si era registrato il sorpasso delle donne, salite al 51% del totale, ma anche in questo caso l’occupazione femminile è molto più elevata all’estero, dove tocca il 62% il risicato 20% della partecipata egiziana attenua peraltro il dato oltre il 70% dei principali paesi europei di presenza. A fruire del lavoro part-time è poco più dell’1% del personale maschile, mentre sono mediamente circa 28 donne su 100 a chiedere una riduzione di orario. Dal lato degli inquadramenti, nelle banche italiane meno dello 0,5% delle donne è dirigente contro il 2% degli uomini. Alla figura di quadro direttivo arrivano invece in media circa 30 donne su 100, contro quote del 50% fra il personale maschile. Di contro è più alta la presenza femminile tra le aree professionali (il 70% circa delle donne contro il 48% degli uomini). Tutto questo si riflette in un divario reddituale fra uomini e donne, calcolabile in circa 10 punti percentuali”.
“Più elevata – rimarca il quotidiano online – è la differenza di reddito tra gli occupati europei, che arriva fino al 25% per le figure femminili di staff in Polonia e Bulgaria e si colloca attorno ai 15 punti in Germania, Austria e Romania. “La crescita dell’occupazione femminile – ribadisce Sara Barberotti non trova analogo trend nei profili reddituali e di carriera, frenati dalla necessità delle donne di ricorrere al part-time per sopperire alle carenze del welfare pubblico. Vogliamo che il confronto sul nuovo contratto nazionale diventi l’occasione per aprire in tutte le banche tavoli negoziali in grado di individuare soluzioni idonee a sconfiggere le disparità sociali che si riverberano sulla cultura del lavoro di questo paese”.
Per quel che riguarda i percorsi formativi e l’utilizzo del part time, Vilma Marrone, responsabile della Struttura nazionale Donne e Politiche di Parità e di Genere, fa notare come ci sia “pure un fattore connesso alla disponibilità (di orario, territoriale, ecc.), che spesso ha a che fare con equilibri familiari e compiti di cura a cui le donne sono sottoposte in misura nettamente maggiore degli uomini”. Circostanze che impattano negativamente sui salari variabili e discrezionali, allargando di fatto il gap reddituale tra uomini e donne. “I numeri riferiti alla ricerca – commenta Pier Paolo Merlini, segretario regionale First Cisl Lombardia – impattano percentualmente anche sul nostro territorio. La carenza di politiche attive di welfare, come ad esempio asili nido, decontribuzioni e incentivazioni fiscali a favore dell’assistenza familiare, limita spesso la scelta delle lavoratrici di intraprendere un lavoro a tempo pieno. Il ricorso al part-time penalizza però, di fatto, i percorsi di carriera e, di conseguenza, le penalizza in termini economici”.