Zamagni su Avvenire, salviamo l’anima al credito con la biodiversità bancaria

“L’abbandono dei territori, la riduzione del credito alle piccole imprese, la contrazione dell’occupazione nel settore sono tra le conseguenze più negative del gigantismo bancario. Come spiega il professor Zamagni nel suo articolo pubblicato su Avvenire, non vi è nessuna evidenza scientifica che “one size fits all”, che il settore bancario e l’economia nel suo insieme traggano beneficio cioè dall’esclusiva presenza di istituti di grandi dimensioni”. Lo dichiara il segretario generale di First Cisl Riccardo Colombani.

“Evidenti in Italia sono i danni che un approccio ideologico di questo tipo ha lasciato dietro di sé negli ultimi anni – sottolinea il leader dei bancari della Cisl – con la riforma prima delle banche popolari, poi, benché in misura più ridotta, con quella del credito cooperativo.”

“First Cisl segnala da tempo l’esigenza di ‘dare valore ai valori’ che costituiscono il sostrato storico e ideale delle banche di comunità e ci uniamo quindi alla proposta avanzata da Zamagni di rivedere gli aspetti più penalizzanti delle normative che ne hanno messo in discussione il ruolo. Non esiste un’economia libera senza biodiversità bancaria – conclude Colombani – senza un mercato che sappia coniugare l’efficienza con la promozione di un benessere inclusivo”.

Segue l’articolo dell’economista Stefano Zamagni, presidente della Pontificia accademia delle scienze sociali:


Salviamo l’anima al credito con la biodiversità bancaria

Con la (imposta) trasformazione in Spa della Banca Popolare di Sondrio, avvenuta il 29 dicembre dell’anno passato, si è concluso il processo di ingegneria finanziaria irragionevolmente voluto dal governo Renzi nel gennaio 2015 e irresponsabilmente accolto dal nostro Parlamento. Come è ormai a tutti noto, la riforma del credito popolare è stata giustificata con l’argomento che il voto capitano tipico della forma cooperativa di impresa, impedendo di fatto la contendibilità, sarebbe di ostacolo al buon governo societario e al rafforzamento patrimoniale degli istituti.

Come gli studiosi più accreditati di teoria economica confermano, ciò non può essere affatto dimostrato, ma se anche lo fosse, si sarebbero dovuti prendere comunque in considerazione i costi sociali di una riforma del genere, e, in particolare, si sarebbe dovuto tenere conto degli asset non solo materiali, ma pure di quelli immateriali di banche di comunità come sono quelle del credito cooperativo. Del pari, non è vero che senza aggregazioni, banche di media dimensione sarebbero destinate a scomparire. Valga un solo dato. Nei diciannove Paesi dell’Eurozona, con 342 milioni di abitanti, vi sono, oggi, circa 2.500 banche piccole e medie; negli Usa, con 331 milioni di abitanti, vi sono 10.500 community bank e credit union.E allora? Contrariamente a quanto veicolato da una consolatoria tesi, il problema bancario italiano non sta nella ridotta dimensione delle banche. Magari fosse questo il problema!

La recente ricerca, di gran pregio, di E. Beccalli et Al. (2022) dimostra (non già afferma) che il ruolo delle banche di territorio continua ad essere, nel nostro Paese, fondamentale e che le piccole/medie dimensioni sono compatibili con redditività e efficienza. Il successo, infatti, è spiegato da variabili come la buona governance, la capacità di valutazione dei rischi, la prossimità alle imprese richiedenti credito, l’obiettivo di ridurre la forza dirompente delle esternalità pecuniarie. Queste ultime, a differenza delle esternalità tecnologiche, sono il vero tallone d’Achille della finanza contemporanea. È dunque priva di fondamento la credenza di chi ritiene che il relationship lendini e gli effetti di prossimità sarebbero ormai di scarso peso perché superati dall’introduzione delle nuove tecnologie del finteci nel settore bancario.

Se le cose stanno – come stanno – incutesti termini, come darsi conto di quanto accanto con il DL 37/2015 che ha imposto alle dieci maggiori banche popolari di trasformarsi in Spa, abbandonando la provvida invenzione del voto capitano, in grado di bilanciare potere del capitale e democrazia economica? Per rispondere, si consideri che mai come nel caso dell’evoluzione della finanza degli ultimi decenni è stato così chiaro che i mercati, soprattutto laddove i rendimenti di scala sono presenti e le economie di rete rilevanti, non tendono affatto spontaneamente alla concorrenza ma all’oligopolio. Invero, il graduale allentamento di regole e forme di controllo (come quella della separazione tra banca d’affari e banca commerciale) hanno progressivamente condotto alla creazione di un oligopolio di intermediari bancari troppo grandi per fallire e troppo complessi per poter essere regolati. Il sonno dei regolatori ha dunque prodotto un serio problema di equilibrio di poteri indispensabile per il mantenimento della stessa democrazia politica.

Mentre la banca commerciale dà valore al mercato, la banca relazionale dà mercato e valori quali mutualità, governance democratica, reciprocità, bene comune. Non è capace di futuro la società nella quale si cerca di avvalorare, cioè di dare valore, a soggetti che mirano al solo profitto. Se valori come quelli appena ricordati restano fuori dall’arena del mercato, confinati in sfere come la famiglia, i gruppi sociali, l’associazionismo, mai riusciremo a civilizzare il mercato, a renderlo cioè strumento di prosperità inclusiva. Un mercato che è solo efficienza non promuove, in senso migliorativo, la condizione umana. Ecco perché ritengo sia giunto il momento di porsi l’obiettivo di lavorare una metrica in forza della quale sia possibile misurare il contributo specifico che le «banche con l’anima» danno alle creazione del valore aggiunto sociale, un contributo che oggi sfugge completamente ai criteri di misurazione della contabilità nazionale.

Inutile stracciarsi le vesti di fronte ai dati che documentano di un aumento scandaloso delle disuguaglianze sociali, se poi si impedisce, per via legislativa, di dare ali ad imprese che come le banche cooperative operano per contrastare l’aumento endemico di quelle diseguaglianze. Non si dimentichi, infatti, che l’accesso al credito è una delle vie più sicure per vincere la povertà. Ecco perché non favorire la biodiversità bancaria, in nome dell’errato principio secondo cui «one size fits all» (una stessa dimensione va bene per tutti), costituisce una patente violazione del principio di libertà che una avanzata economia di mercato non può certo tollerare. Battersi dunque per difendere la biodiversità bancaria significa impegnarsi per una autentica battaglia di civiltà. Perché la vita fiorisce grazie alla diversità – come il filosofo Benjamin Constant aveva scritto già agli inizi del’Ottocento.

Mi piace terminare ricordando che, nel 1579, George Buchanan nel suo trattato De Jure regni apud Scotos scriveva: «Con Cicerone, penso che vi sia nulla sulla terra che più piaccia a Dio che le associazioni di uomini legalmente uniti, chiamate Incorporazioni civili, che stanno assieme allo scopo di realizzare un mutuo cooperare per il bene di tutti». Come si vede, il principio cooperativo ha radici profonde, e assai robuste. Per questo ritengo plausibile, oltre che fattibile, formulare un auspicio: che la Banca Popolare di Sondrio voglia porsi alla guida di un progetto bancario popolare che valga «a salvare il salvabile» (e ce ne sono tante di cose che possono essere salvate). Dopo tutto, non è forse vero che le riforme, soprattutto quando sono sbagliate, possono essere sempre modificate? Basta dotarsi di una dose adeguata di intelligenza e di coraggio morale.