“Colombani (First Cisl): «Il risiko? Fa bene solo agli azionisti. E le conseguenze le pagano lavoratori, risparmiatori e imprese»” è il titolo con cui Economy Magazine pubblica un’intervista al Segretario generale nazionale First Cisl, Riccardo Colombani. Di seguito il testo integrale:
Segretario Colombani, che giudizio dà delle misure sulle banche contenute nella manovra?
Abbiamo detto fin dall’inizio che era ragionevole chiedere alle banche un contributo per tagliare le tasse al ceto medio. Il governo ha proposto un ventaglio di misure che prevede l’aumento dell’Irap, un intervento sulle Dta, la limitazione della deducibilità degli interessi passivi, l’affrancamento delle riserve accantonate a compensazione del mancato pagamento dell’imposta prevista dalla legge di bilancio per l’anno 2024. Entreranno nelle casse dello Stato diversi miliardi di euro. Come ogni anno, ci saranno modifiche del testo bollinato nell’iter parlamentare. Vedremo se l’Irap aumenterà del 2% o del 2,5%. Il gettito sarà significativo, ma i banchieri lo ritengono sostenibile. Questa valutazione è importante perché impegna le banche a non ribaltare il maggior onere sui lavoratori e sui clienti. Riguardo al pacchetto degli strumenti, però, non si può non osservare che manca un disegno organico in grado di dare un indirizzo all’industria bancaria. L’unico obiettivo infatti è fare cassa, ma senza soluzioni strutturali. Diverso sarebbe stato, ad esempio, un intervento sulle garanzie statali sul credito.
Perché?
Le garanzie pubbliche sui prestiti bancari rappresentano un indubbio vantaggio per le banche che risparmiano capitale, in quanto le eventuali perdite sui crediti sono a carico dello Stato, chiamato a rispondere nei limiti percentuali della garanzia. Ciò consente alle banche di utilizzare il patrimonio per altri business e di distribuirlo agli azionisti. Per questo, l’introduzione di accise sulle garanzie statali, con l’esclusione di alcune fattispecie e definendo delle franchigie, con il monitoraggio e l’indirizzo delle autorità creditizie per evitare che vengano scaricate, ad esempio, sulle Pmi con tassi d’interesse più alti, sarebbe un intervento di natura strutturale con effetti virtuosi sull’economia italiana. Sarebbero garantite maggiori entrate, motivate dal trasferimento dei rischi di credito dalle banche allo Stato. Al contempo, si favorirebbe il ripristino di politiche creditizie non condizionate dal decisivo trasferimento del rischio, che può creare una bolla o, quanto meno, dipendenza pericolosa, viziando cruciali processi d’impresa di attività riservata alle banche, qual è appunto l’esercizio del credito.
Nelle ultime trimestrali delle principali banche emerge un forte aumento delle commissioni trascinate dall’incremento del risparmio gestito. Anche le assicurazioni sono attratte dai business del risparmio. Cosa sta accadendo?
Le banche puntano sempre di più a sostenere i ricavi attraverso la gestione del risparmio degli italiani. Per le 5 big al 30 settembre le commissioni hanno pesato per oltre il 38% del margine primario, un risultato eclatante per modelli di business non specializzati. Ciò spiega anche perché il risiko coinvolga in pieno le compagnie assicurative, sulle quali pesano peraltro anche gli effetti del Danish compromise, che le pongono in posizione di debolezza rispetto alle banche: un’asimmetria normativa contro la quale il presidente di Unipol Carlo Cimbri ha evidenziato ripetutamente. La stessa Unipol, protetta dal capitale stabile e di maggioranza delle Cooperative, era già stata protagonista, per il tramite di Bper, dell’acquisto nel 2020 di rami d’azienda di Ubi che le ha garantito una forte presenza in Lombardia e oggi, con l’integrazione di Bp Sondrio, Bper è diventata la prima realtà per numero di sportelli nella regione più ricca d’Italia. Di recente, probabilmente con l’intento di proteggersi da operazioni ostili, ha aperto una posizione in derivati per un ammontare pari al 9,99% del capitale. D’altra parte, i dividendi distribuiti dalla banca sono molto significativi. E poi Generali, la nostra multinazionale delle assicurazioni, che è l’oggetto del desiderio di banchieri e investitori, valuterà prossimamente se procedere con l’ipotesi di operazione straordinaria con Natixis, annunciata diversi mesi fa. Gli assetti proprietari hanno avuto un forte scossone, con Mediobanca che è entrata a far parte del gruppo Mps, che ha azionisti rilevanti come Caltagirone e Delfin, già nella compagine sociale del Leone di Trieste. Ironia della sorte, Generali, che era il primo azionista privato post aumento di capitale precauzionale di Mps, ha come azionista di maggioranza relativa proprio il gruppo di Rocca Salimbeni.
In questo contesto, come valuta le voci di una possibile aggregazione tra Crédit Agricole Italia e Banco Bpm?
Ormai non si tratta più di voci, dal momento che vi ha apposto il suo timbro Olivier Gavalda, capo della multinazionale francese, che ha definito auspicabili le nozze in sede di presentazione del piano d’impresa. Peraltro, il gruppo cooperativo francese è ancora in attesa del via libera della Bce a salire sino al 29,99% nel gruppo Banco Bpm. E poi ci sono i riflettori accesi sul golden power. Francamente, non capisco neppure il timing. Comunque, è un’ipotesi alla quale non possiamo guardare con favore poiché creerebbe il terzo gruppo italiano per sportelli, con conseguenze facilmente prevedibili: una nuova ondata di chiusure. Una parte sarebbe imposta dall’Antitrust per evitare concentrazioni eccessive, ma una parte ancora maggiore deriverebbe dalla ricerca di sinergie di costo. Parliamo di numeri molto significativi: solo a Milano il nuovo gruppo avrebbe 248 sportelli, quasi un quarto del totale; a Parma il 39%; a Piacenza il 31,8%. Le regioni più esposte sarebbero Lombardia, Liguria ed Emilia Romagna. Per di più sarebbe a rischio anche la sede di Crédit Agricole a Parma, con tutte le conseguenze che ciò comporterebbe per l’economia dell’intera Emilia Romagna.
Quali rischi intravede?
Intanto, le forti pressioni per il taglio dei posti di lavoro. Laddove si realizzasse l’operazione straordinaria non accetteremo riduzioni dei livelli occupazionali. Non avrebbe senso per imprese con redditività tanto elevata e molto stabili. E poi ci sarebbero fenomeni di mobilità territoriale e professionale molto impattanti.
Inoltre, il rischio è che vengano penalizzate ulteriormente le fasce più deboli della popolazione e le piccole imprese, che già oggi soffrono per la restrizione del credito. Un altro rischio è che l’aggregazione sia orientata più a valorizzare il risparmio gestito che a sostenere lo sviluppo dei territori, visto che sia Banco Bpm con Anima, sia Crédit Agricole con Amundi hanno un peso rilevante in questo business. Sarebbe invece opportuna la focalizzazione su una buona governance, inclusiva delle istanze del lavoro, considerato che in ambedue le realtà ci sono pratiche partecipative che possono essere virtuosamente sviluppate facendo leva sulla legge sulla partecipazione delle lavoratrici e dei lavoratori.
L’intervista sul sito di Economy Magazine

