Le donne nel settore bancario e il loro gap reddituale, l’analisi di First Cisl

“L’eliminazione delle disparità di genere, o meglio, la creazione di condizioni di pari opportunità, è quindi, non da sola, alla base della diffusione di una ‘cultura della parità’, indispensabile per superare i pregiudizi e le sottovalutazioni che poi, come sentiremo successivamente, rischiano di farci accettare la convivenza con ciò che accettabile non è e non lo sarà mai”: lo ha affermato Vilma Marrone, responsabile della Struttura nazionale Donne e Politiche di Parità e di Genere aprendo i lavori del convegno “Con la violenza non si tratta” all’Auditorium di via Rieti a Roma.

Nel proprio intervento, Vilma Marrone ha illustrato le linee guida dello studio di First Cisl sull’occupazione femminile nel settore bancario italiano. “La ricerca di First Cisl – ha detto – si è concentrata sostanzialmente su due aspetti: verificare la presenza delle donne nel settore bancario; verificare il divario reddituale all’interno dello stesso”.

Per quanto riguarda la presenza di lavoro femminile nelle banche, la ricerca – ha spiegato – conferma la previsione fatta dall’Abi in un convegno del 2012, quando “era facile prevedere, che tra il 2015 e 2017 i due generi sarebbero stati equamente rappresentati nell’occupazione del settore”. Oggi la parità di genere è molto vicina, ma “a favorire questa condizione incide certamente l’accelerazione del processo di dimagrimento degli organici, che proprio nel corso di questo anno, ha già prodotto accordi per quasi 20.000 esodi, che, ancora per qualche anno, riguarderanno in prevalenza la  popolazione maschile”, poiché “nel settore bancario le assunzioni furono infatti prevalentemente maschili fino agli anni ‘80 (ancora più a lungo nel comparto del credito cooperativo)”.

“L’importanza del dato – si è sottolineato -, consiste nell’inquadrare la dimensione prospettica di un fenomeno, quello del gender gap, che se non corretto tenderà a riguardare una maggioranza sempre più ampia della popolazione bancaria”.

Per quanto invece attiene alle differenze reddituali, si parla di 10 punti nel settore bancario italiano. “Va precisato, solo a scanso di equivoci, che il divario reddituale – ha spiegato la responsabile della struttura First Cisl dedicata alle donne e alle politiche di genere – non è in nessun modo connesso a trattamenti contrattuali differenziali, godendo le donne degli stessi trattamenti retributivi degli uomini, come previsto dalle leggi, dalla contrattazione collettiva e dall’articolo 3 della nostra Costituzione”.

La prima causa risiede invece “è quella che imputa la causa al diverso utilizzo dello strumento del part-time da parte delle donne rispetto agli uomini. Mentre il part-time è utilizzato, nelle sue varie forme, dal 20% delle donne, solo l’1% degli uomini vi fa ricorso”. Al ricorso al part-time “sono legati alcuni fattori collaterali che, invece, rischiano di essere determinanti in tal senso. A titolo di esempio, possiamo citare la penalizzazione in cui incorrono i lavoratori a tempo parziale rispetto alla percezione dei ticket pasto, a tutti gli effetti entrati a far parte della retribuzione dei full-time. Ma il caso di specie in cui si intravede il rischio di un trattamento effettivamente, seppur involontariamente, discriminatorio riguarda il trattamento economico del lavoro aggiuntivo, a cui, pur essendo in teoria una casistica più che straordinaria, le lavoratrici part-time sono spesso costrette, proprio per non sentirsi mettere in discussione l’orario parziale”.

“Il secondo fattore che incide direttamente sul minor reddito femminile in banca – ha sottolineato la relazione – è connesso ad un gap nei percorsi professionali e di carriera: anche su di essi ha influenza il maggior ricorso al part-time, spesso considerato inconciliabile con ruoli di responsabilità negli attuali modelli organizzativi aziendali”.

“C’è anche un fattore connesso alla disponibilità (di orario, territoriale, ecc.), che spesso ha a che fare con equilibri familiari e compiti di cura a cui le donne sono sottoposte in misura nettamente maggiore degli uomini”. Infine, ad agire negativamente sul divario reddituale per le donne sono i salari variabili e discrezionali, “anch’essi ancora prevalentemente assegnati a dipendenti di genere maschile”. Rispetto a quest’ultima considerazione “si potrebbe avanzare un’ipotesi di resistenza delle aziende a riconoscere il valore del lavoro femminile anche laddove la massima elasticità degli strumenti utilizzati consentirebbe di compensare i gap involontariamente, ma inevitabilmente, creati dalla rigidità di alcune strutture contrattuali e organizzative”.

Alla successiva tavola rotonda sulla violenza di genere hanno preso parte la giornalista Annalisa Bruchi, don Aldo Buonaiuto dell’associazione Papa Giovanni XXIII, l’on. Caterina Bini, prima firmataria della proposta di legge sulla «Modifica all’articolo 3 della legge 20 febbraio 1958, n. 75 concernente l’introduzione di sanzioni per chi si avvale delle prestazioni sessuali di soggetti che esercitano la prostituzione», Elisabetta Parmegiani, mamma di “Rosa”, Andrea Bernetti, psicoterapeuta e presidente del Cam di Roma (Centro di Ascolto Uomini Maltrattanti) e Liliana Ocmin, Responsabile nazionale Dipartimento Donne Immigrati e Giovani Cisl.