“Nelle banche italiane le donne stanno per raggiungere la parità di occupazione con gli uomini, a mancare invece è un contesto culturale, sociale e legislativo che ne consenta lo sviluppo professionale, oggi limitato dal fatto che la cura della famiglia e delle fasce più deboli grava quasi tutta su di loro”: è il commento del segretario generale di First Cisl, Giulio Romani, alla ricerca sull’occupazione femminile nel settore bancario realizzata dalla struttura nazionale “donne e politiche di parità e di genere” del sindacato.
Se cinque anni fa le donne erano il 43% del personale, all’inizio del 2017, stando ai bilanci delle “big five” – Intesa Sanpaolo, UniCredit, Monte dei Paschi, Banco Bpm e Ubi –, che rappresentano insieme più del 60% dell’occupazione bancaria, la percentuale femminile si stava approssimando al 47% (84.000 donne a fronte di 97.000 uomini).
“È presumibile – dice Sara Barberotti, segretaria nazionale di First Cisl e responsabile delle politiche di genere del sindacato – che a fine 2017 la quota femminile risulti ulteriormente accresciuta per effetto degli ingenti esuberi definiti o annunciati nel 2017, che sfiorano i 18.000 addetti. A uscire sono soprattutto gli uomini, mediamente più anziani, poiché l’incremento della presenza femminile nelle banche ha preso avvio solo dagli anni ’80. Il tasso di occupazione femminile è comunque largamente minoritario rispetto a quello europeo, come è dimostrato anche dalla distribuzione del personale dei gruppi bancari a più spiccata propensione internazionale, UniCredit e Intesa Sanpaolo”.
UniCredit occupa in Italia circa 21.700 donne, pari al 44% del personale, mentre negli altri paesi europei arriva al 65% (circa 51.700 donne contro 27.700 uomini), con punte del 77% in Bulgaria e Polonia, del 75% in Croazia e del 72% in Romania, mentre Germania e Austria sono al 54%. Nel perimetro italiano di Intesa Sanpaolo, invece, già a fine 2016 si era registrato il sorpasso delle donne, salite al 51% del totale, ma anche in questo caso l’occupazione femminile è molto più elevata all’estero, dove tocca il 62% (il risicato 20% della partecipata egiziana attenua peraltro il dato oltre il 70% dei principali paesi europei di presenza).
“La crescita dell’occupazione femminile – sottolinea Sara Barberotti – non trova analogo trend nei profili reddituali e di carriera, frenati dalla necessità delle donne di ricorrere al part-time per sopperire alle carenze del welfare pubblico. Vogliamo che il confronto sul nuovo contratto nazionale diventi l’occasione per aprire in tutte le banche tavoli negoziali in grado di individuare soluzioni idonee a sconfiggere le disparità sociali che si riverberano sulla cultura del lavoro di questo paese”.
A fruire del lavoro part-time è poco più dell’1% del personale maschile, mentre sono mediamente circa 28 donne su 100 a chiedere una riduzione di orario. Dal lato degli inquadramenti, nelle banche italiane giunge tuttora a ricoprire il grado di dirigente meno dello 0,5% delle donne, a fronte del 2% per gli uomini. Alla figura di quadro direttivo arrivano in media circa 30 donne su 100, contro quote del 50% fra il personale maschile. Per converso, è più alta la presenza femminile tra le aree professionali (il 70% circa delle donne contro il 48% degli uomini). Tutto questo si riflette in un divario reddituale fra uomini e donne, calcolabile in circa 10 punti percentuali. Più elevata è la differenza di reddito tra gli occupati europei, che arriva fino al 25% per le figure femminili di staff in Polonia e Bulgaria e si colloca attorno ai 15 punti in Germania, Austria e Romania.