Smart working, sostenibilità, politiche di genere. Cos’hanno in comune questi e altri temi?
Oltre ad avere un forte impatto sulle persone e la loro qualità di vita, sono tutte questioni per cui le aziende hanno avuto intensi e spesso passeggeri colpi di fulmine.
Che sia stato perché conveniente (perché piaceva alla possibile clientela, perché era attrattivo per i talenti, perché lo chiedeva il mercato e lo facevano i competitor, per la presenza di incentivi fiscali) o perché obbligati dalle normative, tutti si riconoscono da un marcato dietrofront o almeno da un brusco rallentamento.
Sullo smart working è stato evidente: inviso prima della pandemia, indispensabile durante, ora resiste per quelli che hanno ridotto le sedi e i costi ad essi connessi. Per tutti gli altri sorgono dubbi e perplessità e poi comunque “ok la conciliazione ma i lavoratori prima come facevano?”. Prima speravano di cavarsela facendo salti mortali (in termini di tempo e soldi) o erano costretti a lasciare il lavoro perché impossibilitati a conciliare (è quello che succede a molte giovani madri). Dimentichi degli impatti non solo sulla conciliazione vita-lavoro delle proprie persone ma anche sull’ambiente a cui si dichiarano molto attenti quando stilano i bilanci di sostenibilità.
Ed ecco che vacilla l’impegno sulla sostenibilità (o quanto meno risulta pesantemente subordinato a questioni che nulla hanno a che vedere con la responsabilità sociale) come anche sulle politiche di genere: veniamo da anni in cui sembravano volere essere tutti più inclusivi, attenti al pianeta e alle nuove generazioni.
Le campagne pubblicitarie così come le iniziative nei confronti dei dipendenti sembravano vertere tutte in quella direzione: welfare, mobilità, attenzione alle persone. Eppure, già allora c’erano chiari elementi di incoerenza, qualcosa che scricchiolava.
La sensazione che si trattasse di operazioni di facciata e di puro marketing ora diventa sempre più netta.
Oltre oceano qualcuno sta iniziando a sollevare dubbi sull’opportunità/necessità/utilità di politiche di questo tipo: non servono, sono nocive, non piacciono.
Se dovessimo guardare i recenti dati ISTAT la risposta sembrerebbe univoca; infatti, il differenziale retributivo di genere (Gender Pay Gap o GPG), calcolato come differenza percentuale tra la retribuzione oraria media di uomini e donne rapportata alla retribuzione oraria degli uomini, nel 2022 è pari al 5,6%.
Il dato che sconvolge di più, però, riguarda la differenza sul livello di istruzione.
Ci si aspetterebbe che man mano che si sale nella formazione scolastica, il divario possa ridursi e, invece, accade esattamente il contrario: a parità di livello di istruzione, i dipendenti uomini hanno retribuzioni medie annue sempre superiori alle donne, con un divario che aumenta al crescere del livello di istruzione; si ferma al 19,9% tra i dipendenti con al massimo la licenza media, sale al 20,5% per l’istruzione secondaria superiore e addirittura raddoppia, raggiungendo il 39,9% fra i laureati. Alle donne non basta più nemmeno essere preparate, anzi, più si è formate più il divario pare aumentare.
Cos’hanno fatto, quindi, in questi anni le aziende perché la tanto sbandierata attenzione alla parità di genere avesse un reale riscontro? Si direbbe davvero ben poco.
Questi dati paiono dirci chiaramente che qualcosa non ha funzionato né nel processo di selezione, né in quello di crescita professionale.
E oggi che l’interesse su questi temi sembra calare è legittimo chiedersi: cosa faranno le nostre aziende? Seguiranno l’onda, le tendenze del momento o ci mostreranno che ci hanno sempre creduto e continueranno a crederci?
Maddalena Acquaviti
Segretaria First Cisl Milano Metropoli