Condivisione del lavoro di cura come strumento per un’effettiva parità di genere

“Risalgono agli ultimi giorni le affermazioni di una nota imprenditrice, quantomeno inopportune e poco rispettose nei confronti delle donne, che hanno scatenato polemiche e riacceso il dibattito sulla disparità di genere nel lavoro e sulle discriminazioni che subiscono le donne.

Proprio negli stessi giorni – si legge in un documento a firma Coordinamento politiche di parità First Cisl Milano Metropoli – i principali quotidiani riportavano i dati Inps relativi all’utilizzo del congedo di paternità da cui emerge come nel nostro Paese meno del 40% dei padri ne ha usufruito negli ultimi 12 mesi e solo il 20% negli ultimi 6 anni, indicando, tra le cause, una discriminazione verso quei lavoratori padri che ne fanno uso dovuta a retaggi culturali e stereotipi che frenano l’utilizzo di tale strumento.

La legge di bilancio del 2022 ha stabilizzato il congedo di paternità obbligatorio, che passa da 7 a 10 giorni (da utilizzare entro i primi 5 mesi di vita del neonato) e che diventa quindi strutturale senza necessità di rinnovo annuale.

Si tratta senza dubbio di una misura importante, per quanto non ancora sufficiente, ma a cosa serve se non si traduce in un concreto strumento per iniziare un percorso di reale condivisione del lavoro di cura familiare?

Il legame lavoro di cura/discriminazione risulta sempre più solido e indissolubile ricadendo su chiunque se ne faccia carico.

Il tema della discriminazione, quindi, tocca e limita anche i lavoratori e non solo le lavoratrici, con la differenza che nella maggior parte dei casi per i padri il congedo è una scelta, contrariamente alle madri che molto spesso non possono scegliere e si ritrovano, pertanto, all’interno di un circolo vizioso con buona pace del gender balance!

Secondo i dati Istat, infatti, il 70% del lavoro di cura familiare è ancora a carico delle donne e si tratta, naturalmente, di lavoro non retribuito e non contribuito, che richiede molto impegno sia in termini di tempo che di spreco di energia fisica ed emotiva. Un impegno che spesso obbliga le donne a un ridimensionamento degli obiettivi di carriera o alla riduzione dell’orario di lavoro, se non alle dimissioni nei casi di effettiva inconciliabilità dei ruoli.

Se è vero che i figli non sono solo delle donne, è altrettanto vero che il lavoro non è solo degli uomini.

Gli interventi normativi sono fondamentali e necessari, ma non potranno produrre gli effetti desiderati senza un radicale cambiamento culturale.

Diventa indispensabile un cambiamento di prospettiva, un ripensamento dei tempi in famiglia e al lavoro degli uomini, un loro ruolo attivo nella condivisione dei carichi di cura in grado attuare una vera parità che consenta ai genitori di decidere, in piena autonomia e libertà, sulla “cura” e sul “lavoro”.

È fondamentale parlare di genitorialità.

Serve farlo adesso: le nascite in Italia sono al minimo storico ed è indispensabile invertire la rotta con misure strutturali che coinvolgano in maniera importante il mondo del lavoro dove un nuovo nato non è quasi mai accolto come una gioia ma anzi come una colpa da espiare.

L’Italia non è un Paese per madri, si sa, ma quindi non è nemmeno un Paese per padri?

I papà sono restii a prendere il permesso di paternità, peculiarità tipica del nostro Paese che non trova riscontro in altri Paesi europei, dove gli uomini si sentono più “liberi” di stare vicino ai figli, grazie ad una maggiore sensibilità aziendale e grazie a una più equa suddivisione del carico della famiglia tra i 2 genitori. Però qualcosa fra i più giovani sta cambiando.

Sembra, infatti, che ci sia un ricorso maggiore al congedo di paternità da parte dei neo papà più giovani, forse perché inseriti in percorsi di carriera non ancora troppo rigidi e consolidati, forse perché riescono a trasferire più facilmente le competenze sviluppate in ambito familiare anche nel mondo del lavoro, portando tra le mura aziendali elementi positivi quali ascolto, comunicazione, adattabilità al cambiamento e all’imprevisto.

La strada è ancora lunga e irta perché è necessario un cambio di mentalità radicale. Sarà più facile da instaurare in una generazione più “giovane”, già abituata ad adattarsi e aprire la mentalità al “nuovo”?

La famiglia e il lavoro rappresentano i due fondamentali ambiti di realizzazione personale di ogni individuo e quello di lavoratore e di genitore sono ruoli che coesistono, non è possibile trattarli in maniera avulsa l’uno dall’altro.

Quando nelle aziende il ruolo genitoriale è riconosciuto e valorizzato e quando si realizza un’armonizzazione dei tempi vita-lavoro, si lavora con maggiore qualità ed efficienza, i datori di lavoro beneficiano delle positive ricadute di tali miglioramenti, si favorisce l’occupazione femminile e si riequilibra il gap salariale.

Il ruolo delle aziende risulta quindi centrale per la valorizzazione dei ruoli genitoriali, per favorire una cultura inclusiva e il bilanciamento dei carichi di cura attraverso congedi e flessibilità, ma anche accesso a servizi e risorse, nonché aiuti psicologici.

Ne deriva che le politiche di conciliazione sono da considerare non solo come politiche di pari opportunità o di welfare, ma come politiche di importanza strategica per il mercato del lavoro e per la contrattazione.

Per questo il ruolo del sindacato risulta essere centrale nella sottoscrizione di accordi, nella promozione di politiche mirate e nel cambiamento culturale.

Solo con l’impegno responsabile di tutte le parti: famiglie, imprese e istituzioni si può agire sul piano culturale, sulle politiche e negli ambienti di lavoro.”

Comunicazione First Cisl Milano Metropoli

All.: documento Coordinamento Parità di genere