Chissà se era smart working?

Onestamente non ricordo, poteva essere il 1972 o il 1973, ma poco importa. Quello più o meno era il periodo e in una delle frequenti visite al parentado accadde l’episodio che merita di essere narrato, non tanto perché lasciò un indelebile ricordo nella mia mente di bambino, ma perché con il tempo sarebbe ritornato di grande attualità secondo quella regola immutata dei corsi e dei ricorsi storici tanto cara a Giambattista Vico.

La zia, sorella della mia mamma, aveva un modesto bagaglio di studi, compensati però da una grande dose di tenacia e di buona volontà, con le quali aveva faticosamente messo da parte i risparmi necessari per acquistare la sua prima e tanto agognata macchina da cucire.

Con la mitica Singer era entrata di diritto nel novero di coloro che nel dialetto veneto venivano definite le “ingasine”, ossia coloro che “ingasavano”, cioè cucivano parti di calzature come tomaie e fibbie.

In quegli anni il settore calzaturiero, specie nella nostra provincia, come si dice in gergo “tirava” e anche parecchio e i capannoni di chi si metteva in proprio per fare le scarpe spuntavano come funghi.

Tanti di questi imprenditori, oltre ad piccolo numero di dipendenti assunti regolarmente all’interno del calzaturificio, si avvalevano della manodopera delle collaboratrici che svolgevano la loro attività a casa.

A questo punto l’arte di fare di fare le scarpe degli imprenditori diventava duplice, nel senso che in tal modo facevano le scarpe – o se più vi piace “tiravano la sola” – anche alle collaboratrici esterne, per le quali evitavano di pagare i contributi pensionistici e i costi per l’assicurazione obbligatoria.

Questo il quadro generale, all’interno del quale si svolse l’episodio che ora vi descrivo.

Erano le prime ore di una serata primaverile ed io mi trovavo sulla porta di casa della zia quando vidi arrivare una Renault 4 amaranto, guidata da colui che tutti conoscevano con il nome, o soprannome, di Davìde, un uomo tutto sommato mite e con un’indole tutt’altro che cattiva. Era vestito con un grembiule color sabbia, con le maniche arrotolate poco sotto i gomiti e aperto su un petto sul quale faceva bella mostra di sé un tessuto arboreo coltivato in anni di trasandata e malcelata trascuratezza. Ai piedi dei calzari che avrebbero fatto invidia al più trucido dei centurioni romani e due mani che avevano l’aspetto della parte terminale di una vanga che aveva visto l’acqua per l’ultima volta dopo l’alluvione del Polesine.

Dopo essere sceso dal mezzo ed essersi elegantemente aggiustato i calzoni,  che forse per effetto della guida sui sedili in simil plastica si trovavano ad essere un po’ bassi di cavallo – credo che la moda tanto in voga tra gli adolescenti di oggi, come un vero precursore  l’avesse lanciata lui – manifestò il suo arrivo con un breve e roco latrato e si apprestò ad aprire il portellone posteriore della macchina, sprovvista di sedile per lasciare il posto a due enormi ceste da panettiere colme di fibbie e tomaie.

Le scaricò con una professionalità degna del miglior camallo ligure che fa tutt’uno con il suo muletto e si avvicinò  alla zia per confermare che anche stavolta il lavoro era arrivato.

La zia, forse in quella circostanza un po’ sorpresa dalla grande mole di lavoro che avrebbe dovuto apprestarsi a compiere, lo guardò e con un velo di preoccupazione mista ad ansia  gli disse:-Caspita Davìde, ma sono un’infinità!

Lui, con fare enormemente rassicurante, la fissò negli occhi, con lo sguardo di chi ha la propria dimora in un regno sopra le nuvole e molto soavemente le disse:-Ma non c’è alcun problema, stai tranquilla, falle quando vuoi, senza fretta. Ciao, passo domani a prenderle.