Molte cose sono successe nel sistema bancario in questi anni e la distruzione di valore, non solo per il depauperamento di patrimoni aziendali, ma anche per la contrazione dei posti di lavoro, per la svalutazione di crediti mal erogati e per la mancata restituzione dei soldi ad alcuni risparmiatori, ha determinato un distacco tra le istituzioni bancarie e il Paese e un crollo della loro reputazione.
Molte sono state le responsabilità rispetto a quanto successo, a partire da quelle di alcuni banchieri – non pochi purtroppo – arroganti e incapaci, talvolta disonesti, brillanti solo nel riscuotere i loro indecorosi compensi e le loro faraoniche liquidazioni.
Proprio per questo, per poter parlare di banche senza strumentalizzazioni e pregiudizi, credo sia importante fare un passo indietro nella nostra storia repubblicana e ricordare a noi stessi da quali scelte si origina la nostra società attuale.
Erano gli anni dell’immediato dopoguerra quando, nel clima rovente che susseguiva alla Resistenza, il popolo italiano scelse di vivere in una repubblica democratica e di allearsi politicamente ed economicamente con l’Occidente del mondo. Una scelta che comportò il rifiuto del collettivismo economico e l’approdo ad un sistema fondato sulla valorizzazione della libera impresa privata.
Fu questa la scelta su cui, al di là della loro sequenza, si incardinarono gran parte degli articoli della Costituzione, a partire proprio dal primo, in cui il riferimento al lavoro come elemento fondativo della nostra comunità era evidentemente connesso alla consapevolezza di non avere a vie migliori per garantire, allora come oggi, democrazia e coesione sociale.
Il lavoro, garantito dal primo comma dell’art. 4 della Costituzione e tutelato dall’art. 35, è dunque generato, per irreversibile scelta di campo, soprattutto grazie alle libere imprese private, chiamate ad essere, con responsabilità verso la libertà, la sicurezza e la dignità umana (art. 41), il motore di una società in cui sia possibile conciliare gli interessi individuali con quelli collettivi, quelli privati con quelli pubblici, dando opportunità di crescita ad ogni cittadino.
Per queste ragioni l’art. 47 della Costituzione, spesso dimenticato dai legislatori negli ultimi decenni, salvo evocarlo in occasione di qualche disastro bancario, attribuì alla Repubblica, cioè a tutta la cittadinanza, la responsabilità di tutelare il risparmio e orientare un corretto utilizzo del credito.
Il risparmio ed il credito sono i due pilastri che sostengono le imprese private: senza risparmi da investire e senza credito le imprese private non avrebbero i capitali da cui costituirsi. Ebbene, per la proprietà transitiva, senza risparmio e senza credito verrebbero meno le condizioni sulle quali si fonda la nostra comunità nazionale e da cui trae origine il dovere di ogni cittadino “di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società” (art. 4).
Come tutto ciò possa essere ignorato da parte della politica, fino a fare delle banche il demone contro cui combattere per risolvere ogni male, anziché un bene prezioso da tutelare e vigilare con attenzione, appare davvero incomprensibile.
Da molti anni ormai, e quindi non soltanto da parte dell’attuale Governo che pure sembra particolarmente convinto di questo atteggiamento, la politica nazionale si esercita nella denigrazione del sistema bancario nazionale, soccorrendolo, è vero, nelle situazioni disperate, ma solo per evitare guai peggiori.
Vi è, insomma, solo nelle emergenze, una preoccupazione per la potenziale dannosità del sistema bancario, ma, al contrario, l’attenzione alla sua utilità sembra essere uno sbiadito ricordo del passato e così, peraltro con grande consenso pubblico, presidenti e vice-presidenti del consiglio, ministri e sottosegretari oggi si alternano nell’irridere gli effetti dell’innalzamento dello spread sul patrimonio delle banche e nel proporre prelievi fiscali a loro carico, incuranti del fatto che questo possa danneggiarne i conti, che possa renderle meno competitive delle “cugine” d’oltralpe, che possa eroderne gli utili e con essi il capitale, limitandone la capacità di erogazione del credito. Solo recentemente il controverso Ministro dell’Economia Tria, si è espresso in una intervista dicendo finalmente che “le banche non sono un nemico del popolo e del Governo” e “sono essenziali per la crescita”. Ma, al momento, non si vedono comportamenti conseguenti.
Certo, come ho già detto, le responsabilità dei banchieri nella creazione di questo clima sono state importanti, e non solo quelle di chi “ha sbagliato” ma, complessivamente, quelle di un ambiente che non ha vigilato su se stesso e che, anzi ha difeso, talvolta elogiato o addirittura esaltato e promosso ai vertici dell’associazione bancaria alcuni discutibili personaggi, pensando che essere un settore corporativo fosse più conveniente che essere un sistema responsabile; confondere, però, il disprezzo per l’azione scellerata di alcuni manager, con il giudizio su istituzioni così determinanti per il nostro sviluppo, non solo è sbagliato, ma è, soprattutto, pericoloso e fuorviante per la nostra stabilità economica e democratica.
Peraltro, anche la politica, che tardivamente e confusamente si scaglia contro i guasti a cui abbiamo assistito, dovrebbe invece fare un po’ di autocritica: se davvero si fossero voluti colpire gli abusi o le inettitudini di alcuni manager e proteggere il risparmio e il credito, in questi anni, anziché esasperare le polemiche contro questa o quella azienda bancaria, si sarebbe potuto agire per istituire il reato di disastro bancario; limitare e indirizzare a fini sociali la retribuzione degli amministratori; costruire vincoli normativi più stringenti a tutela dei risparmiatori, per esempio rispetto alle modalità di rilevazione del test di adeguatezza dei clienti previsto dalla normativa Mifid, o rispetto alla regolamentazione delle emissioni di prodotti finanziari; creare accessi alla partecipazione negli organi di controllo di primo e secondo livello nelle banche, attuando, su questo tema, quanto previsto dall’art. 46 della Costituzione in materia di collaborazione dei lavoratori alle imprese; agire su una diversa regolamentazione del mercato degli Npl, evitando speculazioni a carico dei debitori più deboli e smascherando malversazioni nelle concessioni di grandi crediti che rischiano di rimanere impunite e non risanate. Non ricordo di aver letto di concrete iniziative su questi versanti né da parte dei Governi, né da parte delle opposizioni.
Unica soluzione proposta sembra essere quella di mungere le banche per sostenere il banco…
È così che la manovra di bilancio in fase di varo, per dare parziale copertura alla spesa, già prevista oltre i limiti del deficit consentiti dalla Commissione europea, ricorre ad una pesante penalizzazione fiscale del sistema bancario che, solo per il 2019, inciderà sui bilanci delle banche per oltre 3 miliardi, senza contare il pregiudizio derivante dall’innalzamento dello spread che, per ogni 100 punti produce circa 3,5 miliardi di perdite al sistema e un peggioramento dei coefficienti di patrimonio con conseguente riduzione del credito erogabile e dei ricavi ad esso connessi.
Il pregiudizio popolare che si è creato contro le banche finirà per determinare azioni che, anziché far pagare il conto agli opulenti banchieri a cui il vice-presidente Di Maio dice di voler togliere qualche privilegio, penalizzeranno i clienti, che vedranno crescere i prezzi dei servizi e diminuire la possibilità di accesso al credito, e poi forse ai bancari, che attendono dopo anni di sacrifici e immeritate penalizzazioni, anche morali, il giusto riscatto, anche attraverso il rinnovo del loro contratto, che potrebbe essere reso assai più difficile proprio da questa situazione.
E tutto ciò senza augurarsi che la pressione che si sta scatenando sul sistema faccia, oltre ai danni già detti, qualche catastrofe in più, perché alcuni gruppi creditizi costituzionalmente un po’ più deboli potrebbero, dovesse rimanere questo clima di ostilità, ritrovarsi a fare i conti con nuove instabilità, facendo ripiombare il Paese nelle psicosi di qualche tempo fa, quando il fallimento di fatto di alcuni istituti di credito aveva rischiato di far sprofondare l’intera nazione nella bancarotta.
Se invece guardassimo alle banche con meno superficialità potremmo cogliere il fatto che esse, soprattutto grazie all’abnegazione ed alla serietà dei loro dipendenti, sono state capaci, tranne poche eccezioni, nonostante le crisi e le speculazioni, di continuare ad essere le custodi dei risparmi degli italiani, tanto che solo le liquidità accantonate sui conti bancari superano gli 800 miliardi di euro. Una fortuna che, se indirizzata verso il sostegno alle imprese, potrebbe rappresentare la base per un rilancio dell’economia nazionale, e quindi dell’occupazione e del gettito fiscale, senza pari. Un’impresa possibile se, alla caccia alla “banca nemica” si preferisse un’alleanza tra Governo e sistema bancario, tra fisco e buona finanza, tra cittadini e aziende che potrebbe cambiare le sorti del Paese.
Ma il buon esempio deve venire prima di tutto dai diretti interessati ed è per questo che il primo atto della ricomposizione del rapporto fiduciario fra banche, istituzioni e cittadini dovrebbe essere quello di un rinnovo del Contratto nazionale di Lavoro dei quasi 300.000 bancari che ponesse al centro, oltre che i giusti e necessari riconoscimenti economici a chi, spendendo la propria faccia e la propria reputazione personale ha tenuto in piedi le proprie aziende nei momenti più bui, anche questioni socialmente importanti, come l’occupazione e, assieme a quella dei lavoratori, la tutela dei cittadini attraverso la definizione di un’area di applicazione del contratto e una trasparenza dei processi commerciali e retributivi che li garantiscano rispetto al fatto di non doversi rapportare con interlocutori vessati da indebite e pericolose pressioni alla vendita.
I bancari, quale che sia stata l’ingiusta narrazione di questi anni, sono i muratori a cui la Costituzione affida la posa delle fondamenta su cui non solo poggia il sistema economico del Paese, ma, con esso, la possibilità di progresso, finanche spirituale, della nostra comunità: quello che vogliono è poter essere orgogliosi del loro lavoro.
Giulio Romani
Segretario generale First Cisl