#13 Donne e persone

Molti secoli sono passati da quando Aristotele si domandava se le donne potessero avere un’anima, concludendo peraltro che no, le donne non l’avevano in quanto meri “recipienti riceventi del seme maschile”; ma, d’altronde, ne erano passati già molti, di anni, da quando la società Micenea, ai primordi della nostra cultura, teorizzava la superiorità della donna e si organizzava in forma matriarcale: punti di vista.

I Romani hanno preferito la mediazione: la donna giuridicamente sottomessa, aveva un ampio spazio di azione nella vita privata sino a determinare, ma solamente con la persuasione – agire per-il-soave – i destini domestici e non solo.

Il medioevo considerò la donna “la porta dell’inferno”: non indulgere a commentare la paura che traspare da queste parole è opera difficile ma opportuna.

Poi ci fu una storia di lunga e lenta emancipazione; la donna uscì dall’essere sotto la mano del capofamiglia e con un percorso non sempre costante, più spesso fatto di strappi e fermate improvvise, giunse ai nostri giorni.

Giorni intensi di balzi in avanti e polemiche.

Quello che segue vuole essere uno spunto “di genere” per leggere la pagina più recente di questa storia.

Il Rapporto ISTAT 2016 parla di donne che corrono e di uomini fermi: nel 2008 solo una famiglia su dieci era monoreddito da lavoro femminile, nel 2015 le famiglie di questa tipologia sono diventate più di una su otto; in Europa la differenza fra l’occupazione femminile e quella maschile era di 13,7 punti nel 2008 e di 10,4 nel 2015; in Italia, questa differenza era di 23 punti nel 2008 e di 18,3 punti nel 2015.

Possiamo dire che la crisi fa bene alle donne? Proviamo a vedere.

I dati citati sono il risultato di un doppio fenomeno: mentre l’occupazione maschile, tipicamente nei settori maggiormente colpiti, costruzioni e industria pesante, calava di molto, quella femminile è rimasta stabile o ha registrato una leggera crescita; in Italia, per la particolare violenza della crisi, questo fenomeno è, come ci dicono i numeri esposti, ancor più evidente.

L’Italia mostra anche un altro dato interessante: in Europa la tenuta dell’occupazione femminile è dovuta alla crescita della stessa nei Paesi Nordici che compensa la diminuzione avvenuta, con la sola eccezione dell’Italia, nei Paesi cosiddetti “Pigs”; nel nostro Paese, dunque, si registra una relativa protezione del lavoro femminile dovuta alla concentrazione dello stesso nei servizi, in particolar modo quelli alla persona.

Uno studio commissionato dalla Commissione Europea al network ENEGE (European Network of Experts on Gender Equality) ci mostra come la crisi abbia livellato la differenza di genere quanto a occupazione, disoccupazione, salari e anche tassi di povertà, ma abbia ridotto la differenza portandola verso il basso.

C’è un altro dato interessante che emerge: è “cambiato il ruolo delle donne nel mercato del lavoro: esse non sono più la “componente cuscinetto” dell’occupazione poiché sono state sostituite da giovani con contratti temporanei e da lavoratori migranti maschi”.

In economia, il fenomeno che abbiamo indicato, vale a dire la relativa tenuta dell’occupazione femminile nonostante la colossale perdita di posti di lavoro, si chiama fenomeno del “lavoratore aggiunto”, nel caso italiano, più propriamente, della “lavoratrice aggiunta”; con questa espressione si indica quel processo per il quale la necessità di contribuire al bilancio familiare, o di sostenerlo integralmente, prevale sull’“effetto scoraggiamento” nella ricerca del posto di lavoro che, in tempi di crisi, è particolarmente incisivo.

Le donne dimostrano di sapersi adattare meglio degli uomini e di accettare anche lavori molto “sottoinquadrati” rispetto al loro titolo di studio o alla loro precedente mansione; questa capacità di adattamento verso lavori meno qualificati e quindi meno remunerati, ha determinato, di conseguenza, un aumento del gender gap salariale che, nei tempi della crisi in Italia è salito di 1,5 punti percentuali mentre in Europa scendeva.

A tal proposito vi è da specificare che, fonte Eurostat 2016, il gender pay gap in Italia è del 6,1% rispetto al 16,7% europeo; differenziale calcolato utilizzando il salario orario che non ricomprende, dunque, la penalizzazione dovuta a rapporti di lavoro part time, più o meno forzati, o al numero di ore di lavoro straordinario, che, di solito, non premia il genere, quello femminile.

Nemmeno deve essere trascurato nell’analisi di questi dati l’impatto dalla Riforma Fornero che, allungando l’età pensionabile, in proporzione soprattutto delle donne, ne ha impedito la naturale uscita dal mondo del lavoro.

Quindi:

  • in Europa l’occupazione, ad eccezione di Spagna, Grecia e Portogallo, è in costante crescita da decenni, e cresce in modo più accentuato in Italia, anche se il nostro Paese, ad eccezione di Malta, rimane l’ultimo in Europa in termini di occupazione femminile;
  • le famiglie monoreddito nelle quali la donna è la lavoratrice sono, oggi, più di una su otto;
  • le donne paiono occupare tutta la fascia media dei lavori, restano una rarità nella fascia altissima aziendale dei top manager, ma stanno conquistando molti spazi in politica (in Italia, ministeri e regioni, all’estero presidenti e primi ministri);
  • gli uomini stanno perdendo lo spazio tradizionalmente maschile del lavoro nell’industria pesante, perdita questa dovuta al cambiamento organizzativo dei processi produttivi, cambiamento che dalla crisi è stato solo accelerato, ma che, proprio per questo, si configura come un cambiamento irreversibile.

Dunque la crisi fa bene alle donne?

Certamente no, abbiamo visto che l’appianamento del divario occupazionale e salariale fra i generi sta avvenendo soprattutto “tirando verso il basso” il genere prima meglio posizionato; la crisi, ovviamente, fa male a tutti, ma ad alcuni generi di più: ai giovani e agli uomini.

Leggendo il Rapporto ISTAT siamo costretti ad aggiornare alcune nostre convinzioni decennali, ad esempio quella che presuppone che al Sud si facciano più figli che al Nord: errato.

Oggi al Nord si fanno 1,45 figli per donna, al Centro 1,39, e al Sud 1,31; le donne in tempo di crisi devono lavorare e questo, nella tragica assenza di un vero sistema di welfare, comporta la rinuncia alla maternità.

Vi è un’indubbia connessione fra la situazione economica e il mantenimento di uno o più figli, ma prioritariamente determinante è la condizione lavorativa che permette o meno, di conciliare – e in questa accezione ritengo il termine “conciliare” più corretto rispetto al termine “equilibrare” – la necessità di lavorare e la possibilità di essere madri.

È tutta la società in cambiamento, negli aspetti sociali, culturali ed economici; noi ne faremo solo un brevissimo cenno, non essendo tema specifico di queste tesi.

Lungo e significativo l’elenco: dalla crisi del concetto di “ipermercato” (basato sul trinomio casa grande-macchina-passeggino venuto meno con il crollo delle compravendite immobiliari, delle immatricolazioni e delle nascite) alla contrazione delle iscrizioni universitarie dovuta alle scarse prospettive di lavoro offerte dalla laurea perfino nei concorsi pubblici); dall’esplosione del car sharing (che, innescato e spinto dalla crisi, sta diventando un modo di non possedere un’automobile ma di disporne: la metà di coloro che utilizzano il servizio hanno venduto la seconda auto familiare e il 15% di loro anche la prima) alla modalità di nutrirsi (in casa con meno carne e più proteine da legumi, un fatto culturale la cui diffusione massiva, però, è da imputarsi anche alla crisi, fuori casa con cene “smart” o ibride come le “apericene” che derivano da un nuovo modo di interpretare la condivisione del cibo ma nella crisi hanno trovato anche una motivazione economica).

Sono tutti processi destinati a durare o a mutare nel tempo in modo, però, del tutto indipendente dall’uscita dalla crisi; ciò che le generali difficoltà economiche del Paese hanno innescato è una vera e propria rivoluzione delle nostre abitudini di vita.

Si può concludere che le donne e gli uomini stanno, ora con la stessa velocità e intensità di momenti divenuti “storici”, ridefinendo il loro ruolo nella società.

Le donne sono capaci di tutto ciò che noi facciamo
e la sola differenza che esiste fra loro e noi
è che esse sono molto amabili.
(Voltaire)