#4 Operare per il risanamento è una responsabilità di tutti

Mettere in campo una visione partecipativa attraverso la quale immaginare di poter “adattare il cambiamento all’uomo” è un progetto ambizioso, che necessita, senza timidezze, di essere sviluppato facendo ricorso alla capacità di andare oltre i propri compiti tradizionali.

La nuova rappresentanza del lavoro e dei diritti dei lavoratori non può infatti contare sulla regolazione sociale dei soggetti tradizionalmente ad essa deputati.

La politica, tanto nazionale quanto internazionale, ha abdicato a questo ruolo e neppure il mercato, che, deregolato, avrebbe dovuto, nella convinzione dei liberisti, attuare spontaneamente la distribuzione del prodotto della crescita, ha risposto adeguatamente a questa esigenza.

Nello stoltiloquio delle teorie neo-liberiste, che imperversavano ad inizio millennio, due avrebbero dovuto essere gli elementi garanti, rispettivamente, del buon funzionamento dei modelli distributivi e della naturale selezione dei soggetti più competitivi e capaci: l’illusione di una crescita globale inarrestabile, che genera domanda di lavoratori rendendo questi, soprattutto i migliori, forti nel quotare il proprio “prezzo”, e l’altrettanto illusoria efficacia della sanzione reputazionale, che colpisce i soggetti scorretti, le imprese mal gestite, non innovative, distanti dagli interessi generali, rendendole non competitive e, quindi, espellendole naturalmente dal mercato.

La storia ci dice come entrambi i presidi che il mercato avrebbe dovuto auto-generare non abbiano invece saputo efficacemente realizzarsi.

In uno scenario globale che vede le persone assoggettate ad uno sfruttamento planetario senza regole, vittime di un nuovo schiavismo senza deportazione, che si accompagna alla neo-colonizzazione armata dalla finanza, il lavoro si deprezza rapidamente anche nel mondo socialmente più evoluto, perdendo in opportunità, diritti, remunerazione, qualità.

Nel contempo, in assenza di regole, la concorrenza si dipana senza alcun riguardo alle conseguenze ambientali, sociali, politiche dell’azione economica posta in essere; finiscono dunque per affermarsi, prevalentemente, non i soggetti capaci di esprimere la maggior qualità produttiva, ma coloro che, con qualsiasi mezzo, a partire, appunto, dallo sfruttamento del lavoro, competono sui prezzi delle merci e dei servizi, ovvero coloro che, anche in modo non trasparente, beneficiano di posizioni facilitate nell’accesso ai favori della finanza e della politica.

In questo contesto, la reputazione viene garantita, fin quando possibile, non dalla trasparenza dei comportamenti del mercato, ma dalla copertura dei messaggi pubblicitari e della propaganda occulta attuata attraverso il controllo incrociato tra mass-media e principali attori politici e industriali dei Paesi; è questo il motivo per cui l’attenzione viene spostata, non a caso, sulla tutela dei consumatori, ponendoli, paradossalmente, in concorrenza con i lavoratori, costruendo un dualismo sociale che spesso, schizofrenicamente, mette proprio gli stessi lavoratori, nella duplice veste, in contrasto con se stessi.

La prevalenza mediatica del modello pro-consumer spinge l’opinione pubblica, nella sua corsa alla soddisfazione di un irrefrenabile bisogno indotto di acquisto di quantità sempre più elevate beni e servizi a prezzi sempre più bassi, ad accettare come utile e necessaria la riduzione delle tutele lavorative, producendo in tal modo, come per beffa, quegli squilibri distributivi che finiscono per penalizzare proprio la capacità di acquisto e quindi i consumi interni.

A sua volta, come in un circolo vizioso, l’evidenza di come le teorie liberiste si rivelino presto assai inefficienti sia sul piano sociale che, sorprendentemente, sul piano economico, determina i soggetti di mercato ad assumere comportamenti sempre più spregiudicati per inseguire le logiche del profitto.

È, in buona misura, questa, anche la storia del settore creditizio che, spinto dall’ossessione dell’utile finanziario da consegnare ai capitali investiti nel sistema bancario, per lo più, da hedge funds o da gestori di private equity, finisce col trascurare tutto ciò che non risulti essere produttivo di utili nel breve termine.

È in questo periodo che si affermano modelli organizzativi delle banche scarsamente orientati alla cura del presidio del rischio e fortemente improntati alla vendita di prodotti finanziari allo sportello.

Le strutture aziendali vengono modificate: la valutazione del merito creditizio, gestita, per gli affidamenti ordinari, attraverso i rating e lasciata, per le grandi posizioni, nell’autonomia del top management aziendale, diventa sempre più sfuocata, anche perché l’ossessione del ROE incentiva una spinta suicida ad aumentare esponenzialmente i volumi dei crediti erogati.

Gli sportelli, sempre più capillari nel territorio, nonostante tutti gli osservatori specializzati annuncino la prossima necessità di ridurne radicalmente l’entità, diventano veri e propri negozi, dove, anche per il numero estremamente ridotto degli addetti, è possibile, perlopiù, solo usufruire di servizi di cassa e di allocazione del risparmio in prodotti finanziari.

La banca perde professionalità, perché le abilità richieste sono soprattutto di tipo relazionale, ma, diversamente dal passato, non si punta sulla formazione di lavoratori in grado di valutare correttamente la capacità di credito di un’azienda o le potenzialità di successo di un investimento produttivo, né si spinge sulla conoscenza approfondita dei valori mobiliari, preferendo addestrare il personale a rappresentare ossessivamente ai clienti le caratteristiche più “commerciali” dei prodotti tempo per tempo in vendita.

Ne derivano conseguenze disastrose: i rating si dimostrano nel tempo assolutamente inadeguati ad un corretto presidio del rischio, anche perché costruiti su algoritmi “retrospettivi”, non in grado di misurare e prevedere i cambiamenti di un mercato entrato in una fase permanente di turbolenza; anche l’affidamento cieco alla “sapienza” dei manager nella gestione delle grandi posizioni si rivela una soluzione ottusa e fallace, che espone le banche non solo ai rischi connessi all’incompetenza di molti, ma, purtroppo, anche a quelli derivanti dallo scarso rigore di altri, scoperti, non di rado, ad autorizzare operazioni in conflitto di interessi.

Nell’insieme, si produce una mole senza precedenti di credito deteriorato, la cui entità costringe le banche a continue svalutazioni degli attivi che finiscono con incidere pesantemente sulla solidità del patrimonio.

L’effetto più immediato è quello di un vertiginoso deprezzamento dei titoli emessi dalle banche stesse e venduti ai clienti allo sportello.

Tutto ciò, nel mentre costituisce un pericolo enorme per la stabilità delle aziende bancarie spesso esposte al rischio di resolution, finisce, anche a causa di un orrendo scaricabarile delle responsabilità, col trasformarsi in un motivo di gogna mediatica per i lavoratori, già devastati psicologicamente dalle pressioni commerciali ricevute sul posto di lavoro e dall’ansia per il mantenimento di quel posto in aziende sempre più in difficoltà.

La reputazione sociale dei bancari viene infangata da campagne mediatiche a cui si unisce anche certa politica, alla ricerca di un facile consenso anche a costo di gettare l’infamia su onesti e incolpevoli cittadini.

È così che il lavoro bancario, un tempo considerato come un privilegio, si trasforma per molti in un tormento.

Il lavoratore bancario, prima costretto ossessivamente alla vendita e ora insultato e inquisito per aver venduto, cioè per aver lavorato, somatizza la difficoltà di svolgere un lavoro nella cui utilità ha da tempo smesso di credere e di cui, ora, deve perfino vergognarsi.

La scelta partecipativa di FIRST CISL è, dunque, inevitabilmente la scelta di andare oltre i confini dei propri compiti: “impicciarsi degli affari altrui” diventa necessario per risolvere i problemi, diversamente non gestibili, i problemi cioè che il cattivo lavoro di altri producono per i lavoratori che rappresentiamo.

Curare il nostro giardino, tosarne l’erba, portarne le siepi, coltivarne le aiuole, non è sufficiente per poterne godere se nei giardini intorno prolifera la selva e fanno la tana i topi; né, evidentemente, è sufficiente esortare i vicini ad una maggiore cura; né pare essere efficace finanziare i vicini affinché si procurino, da sé, un buon giardiniere…

Per questo FIRST CISL ha immaginato di doversi spingere oltre i tradizionalmente intesi compiti sindacali di tutela e negoziazione, provando a mettere a disposizione del sistema l’ingegno, la competenza e la creatività delle proprie donne e dei propri uomini con proposte che non si limitano a immaginare strumenti di gestione delle ricadute delle scelte aziendali effettuate, ma che suggeriscono soluzioni avanzate sia per il problema impellente del credito deteriorato, sia per quello strutturale dei modelli attraverso cui ricondurre il sistema bancario a produrre reddito economico e sociale, stabilmente nel tempo, attraverso attività che tornino a renderlo prossimo al territorio, utile allo sviluppo, indispensabile per la tutela del risparmio.

Siamo convinti che soluzioni, economicamente sostenibili, che coniughino la tutela del risparmio e lo sviluppo del credito con comportamenti che consentano ai bancari di tornare ad essere orgogliosi del loro lavoro, siano possibili e pensiamo che realizzarle sia un nostro dovere.

Siamo consapevoli che per fare in modo che i lavoratori si approprino delle decisioni che determinano il loro destino occorrerà mettere in campo ulteriori contributi, ma siamo altrettanto certi che il costo di questo investimento non potrà mai e in nessun modo essere più alto di quanto si trova a pagare chi perde la sicurezza o la gioia del proprio lavoro.

Il lavoro dovrebbe essere una grande gioia
ed è ancora per molti tormento,
tormento di non averlo,
tormento di fare un lavoro che non serva,
non giovi a un nobile scopo.
(Adriano Olivetti)